TRAMA
Dodici astronavi arrivano sulla Terra. Perché sono qui? Cosa vogliono?
RECENSIONI
Arrival è, forse, uno dei pochi casi in cui le singole parti sono migliori del risultato complessivo. Nel senso che limpressione è che il film di Villeneuve funzioni solo a livello modulare, e in modo discontinuo. Alcuni moduli, cioè, funzionano, ma poi mancano i raccordi coi moduli successivi, che cambiano registro o magari sono proprio fallati. L'inizio, ad esempio, apertamente malickiano nelle atmosfere e in certe scelte specificatamente filmiche (voce over, taglio delle inquadrature, luci naturali-stiche), è efficace. Sa molto di "cinema d'autore", qualunque cosa significhi ancora, oggi, il virgolettato. Ma quello che segue segna una discontinuità troppo netta e tradisce immediatamente le premesse. Il reclutamento degli esperti per interagire con gli alieni sa un po' di blockbuster deteriore, con stupidaggini da produzione Bruckheimer (il collega linguista che sbaglia una traduzione) e macchiette della peggior specie (il fisico teorico che pensa subito al sistema binario e a Fibonacci). E già lì non sappiamo più che film stiamo guardando.
È una sensazione che si protrae più o meno fino alla fine, perché il film di Villeneuve sembra mettere in sequenza i riferimenti (Kubrick, Spielberg, Nolan, Tarkovskij) senza amalgamarli, diventa didascalico nelle sue pur affascinanti (a tratti) escursioni xenolinguistiche, non evita goffaggini narrative e vuoti di pressione drammatica e, infine, rende troppo palesi i trucchi con cui ha tenuto nascosta (meglio: ha provato a tenere nascosta) la sua sorpresa temporale, la sua struttura con agnizione da puzzle movie. Conviene specificare: ci sono molte buone cose, ottime idee, sequenze riuscite da un punto di vista sia registico che scenografico, bei momenti da fantascienza adulta come non si vedevano da un po' (le astronavi-monolito da pittura metafisica, la lingua aliena che prende consistenza visiva in quadri astratti vagamente pollockiani). Molte buone cose, si diceva, che vanno a braccetto con molte cose meno buone. Perché la già accennata alternanza tra istanze ambiziose e cadute banalizzanti, alla lunga, lascia interdetti e priva il film di una sua personalità decisa, definita. Tutto il discorso basato sull'ipotesi di Sapir-Whorf, ossia sul parallelo tra linguaggio e modus pensandi, ad esempio, deve convivere con sequenze un po' approssimative - da tutti i punti di vista - come quelle dell'attentato dinamitardo all'interno dell'astronave, che rompono l'incanto.
Arrival è, insomma, un film discontinuo, molto poco coerente. Ed è un film, anche in questa suo status ambiguo, molto nolaniano. Pensiamo soprattutto all’ultimo Nolan, quello di Interstellar. Il Nolan “umanista”, cioè, che riflette sullo scorrere del tempo, sui sentimenti, sull’Amore (non solo) genitoriale. E lo fa mentre costruisce uno dei suoi congegni che trascinano lo spettatore nella diegesi, senza limitarsi a sorprenderlo nel finale. In un contesto (fanta)scienitifico il più possibile solido e credibile. Tutte cose, diremmo più o meno esattamente le stesse cose, che prova a fare anche Villeneuve. Mostrandosi anche più abile, di Nolan, nell’edificare un impianto emotivo credibile e consistente. Ma forse meno lucido nel costruire il congegno narrativo che regge il film, tenuto nascosto con troppa evidenza prima (l’esclusione di Renner/Ian dalle inquadrature iniziali, ossia dal flash-back-forward, col senno di poi sono una forzatura giustificata solo dal fatto di voler ingannare lo spettatore) e (di)svelato in maniera un po’ approssimativa poi, quando le tessere del mosaico temporale vengono sistemate con qualche macchinosità di troppo, come se l’intenzione fosse quella di mantenere una (ormai inutile) ambiguità di fondo.
È rado il sottogenere fantascientifico che racconta il “primo contatto” trasformandosi in riflessione esistenziale: il capostipite è 2001: Odissea nello Spazio ma i figliocci umanisti discendono da Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, come L’Arrivo di David Twohy, il cui ecologismo è qui sostituito dal pacifismo, e Contact di Zemeckis, con donna protagonista che, come qui, più che gli alieni scopre se stessa. Con il suo cinema fondato sui suoni, sulle immagini dilatate e d’atmosfera, Villeneuve trova terreno fertile nel racconto (1998) “Storie della tua vita” di Ted Chiang, immerso in un universo con percezione differente del tempo (della vita) e della sua non linearità: si è ammantati di “alienità” e, citando la matrice linguistica protagonista, si riprogramma il cervello immergendosi in un linguaggio totalmente differente. Jóhann Jóhannsson fornisce ancora un tappeto musicale meraviglioso, extraterrestre, con la solennità inquietante dell’ignoto; Villeneuve muove la cinepresa in lenti movimenti in cerca d’intensità, con un inizio malickiano che torna alla fine, circolare, e rivelando il trabocchetto del racconto; la narrazione vive della tensione del contatto comunicativo (tradotto dal regista con macchie di inchiostro), della paura e della gioia della scoperta, per poi essere sconvolta da un’altra linea temporale che irrompe prepotente. Villeneuve e la produzione non hanno il coraggio fino in fondo di cavalcare il cinema ellittico e del subconscio di Enemy, preferendo ostentare, purtroppo, la vena pacifista sull’unione oltre le divergenze delle nazioni e quella patetica sul rapporto con la figlia, peraltro non portatrice di senso nell’economia del racconto, se non quale mezzo per il colpo di scena del futuro passato, con nome palindromo ed inizio uguale alla fine. In originale, gli alieni con design del regista si chiamano Abbott e Costello (Gianni e Pinotto), da noi Tom e Jerry.