TRAMA
Howard è un manager pubblicitario di New York che ha subito un grave lutto, la perdita della figlia di sei anni. Mentre i suoi amici cercano di stabilire un contatto, lui ha smarrito ogni interesse nella vita e scrive lettere all’Amore, al Tempo e alla Morte. Questi ingaggiano tre attori teatrali per incarnare le astrazioni e presentarsi davanti agli occhi di Howard…
RECENSIONI
C'è un pubblicitario di New York che ha subito una grave perdita, disinteressandosi alla vita. C'è un gruppo di persone che vuole portarlo a cedere l'azienda. C'è una compagnia di attori che recitano Amore, Tempo e Morte e si materializzano davanti a lui. Collateral Beauty è un film molto più complesso della sua reputazione: David Frankel lo apre col simbolo sfacciato, il domino che si innesca all'inizio, che funziona da dichiarazione di intenti e specifica subito lo scheletro teorico alla base dell'opera. Tutto è collegato, certo, ma soprattutto si vuole riflettere su quel collegamento e sulla sua rappresentazione. La realtà è semplice, una figlia è morta e il dramma non si supera, ma la messinscena è stratificata, si ingarbuglia fino ad avvitarsi in abisso. Howard è un manager che lavora con la pubblicità, quindi con le immagini, ed è proprio dalle immagini che si sente svuotato: si è 'chiuso', figurativamente al buio della casa, ora deve 'aprirsi' per superare la stasi. Non si può costringere l'uomo a tornare nella nostra realtà, affermano gli amici, siamo noi a dover entrare nella sua. E il grimaldello sono sempre le immagini: mediante lo stratagemma della recitazione, con l'aiuto del teatro (da cui - come sempre - il cinema deriva), gli amici spingono gli attori ad incarnare le astrazioni con cui Howard dialoga. Per riaprire il suo sguardo gli offrono nuove figure, ovvero le personificazioni delle idee. Gli interpreti/concetti di amore, tempo e morte dunque si manifestano in una trasfigurata carola di Natale: lo fanno per contratto ma anche essi, teatranti poveri e depressi, vengono definiti dalle idee che concretano ('Questo è puro Grotowski', afferma Helen Mirren/Brigitte/la Morte).
Così, mentre Howard affronta un percorso 'magico' per ritrovarsi, come in Molto forte, incredibilmente vicino, si pone continuamente l'antico problema della confusione tra verità e messinscena: quando recitano gli attori? Solo con lui o anche negli altri momenti? Parlare con amore, tempo e morte non serve forse a tutti? Perché, come attesta il topos del tumore in Simon/Michael Peña, le astrazioni universali non si applicano al solo protagonista ma ricadono direttamente nella vita e ci riguardano, nessuno escluso. Neanche gli interpreti: questi, calandosi nelle parti, avviano perfino un auto-dialogo con se stessi nei panni dei personaggi, per esempio la Morte è di fatto una donna matura che si avvicina alla fine e l'Amore può davvero trovare l'amore. Non c'è da stupirsi allora che le reali epifanie non coinvolgano Howard ma i suoi colleghi poiché, una volta stabilità l'universalità del gioco, dal confronto con gli attori ognuno trova qualcosa da correggere nella propria vita, una mira da aggiustare. Il vero twist ending non è quindi la rivelazione sulla donna di Howard, già ampiamente prevista, ma il rovesciamento del percorso catartico che non viene imposto al protagonista (egli se lo autoimpone) bensì ai comprimari. Frankel, dirigendo Will Smith memore della lezione mucciniana, in quelliper-sentimentalismo che ormai riflette su di sé, gira un film imbevuto di cultura classica (c'è Shakespeare, Whitman, ma soprattutto Dickens) e insieme inserito nel contemporaneo, che permette di sondare la consueta possibilità onirica con la sparizione finale degli attori (che siano davvero astrazioni?): attraverso un prodotto commerciale riflette sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Il suo registro è pop, sfida il melò a viso aperto, non teme lo strappalacrime infatti lo è per scelta, non per vuoto di logica: è evidente e consapevole, eccessivo nei simboli, insistente fino all'invadenza (tutto il finale troppo dimostrativo), impegnato a puntualizzare quanto emerso spontaneamente dal tessuto. Però, al contrario della retorica dominante spesso dissimulata, è un film che espone i tre cardini del cinema hollywoodiano, Amore, Tempo e Morte, senza mimetizzarli nei trucchi interni alla messinscena: il suo coraggio è chiamarli per nome, a lettere maiuscole.