Drammatico, Recensione

CAPTAIN FANTASTIC

Titolo OriginaleCaptain Fantastic
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2016
Durata118'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Ben ha scelto di crescere i suoi sei figli lontano dalla società dei consumi, nel cuore di una foresta. Qui i ragazzi si allenano fisicamente e intellettualmente: cacciano per procurarsi il cibo, studiano le scienze i capolavori della letteratura, si confrontano in dibattiti democratici. Ma la morte della madre li costringerà a intraprendere un difficile viaggio nel mondo “reale”.

RECENSIONI

Captain Fantastic è l’ultimo arrivato nella grande famiglia della commedia indie americana. In un arco ideale che va dalla tenera irriverenza di Little Miss Sunshine all’immaginifico emotivo di Re della terra selvaggia, il film di Matt Ross possiede tutte quelle caratteristiche, tematiche e formali, che oramai sembrano identificare un genere. Si tratta infatti di una commedia colorata e spiritosa, ma che all’occorrenza sa aprirsi a risvolti tematici più importanti, utilizzando l’onnipresente topos della famiglia disfunzionale come campo di battaglia sul quale organizzare il dibattito. La formula, qui come altrove, polarizza il consenso fra chi decide di empatizzare con lo specifico ritmo emotivo dettato dal genere e chi se ne distoglie infastidito dalla percentuale di furbizia che queste operazioni spesso comportano. Captain Fantastic non opera uno scarto tale da potersi dire immune da questa trappola ricettiva, ma ha dalla sua una sufficiente dose di intelligenza per non appiattirsi a mero calco di cose già viste.Il film si sostiene innanzitutto su una scrittura che ammette un contradditorio, che invita cioè a mettere in questione la missione morale del suo eroe senza pretendere di categorizzare fra giusto e sbagliato. È una traiettoria etica ambigua quella di Ben/Viggo Mortensen, padre padrone idealista e sconnesso dalla realtà storica, dolce e dittatoriale allo stesso tempo, ed è attraverso il suo personaggio che Matt Ross riflette sulla tenitura storica di certi ideali freak, tipici della contestazione e dell’ardore giovanile anni sessanta-settanta, nel tempo presente. Lo fa, in particolare, concentrandosi sul nodo cruciale dell’educazione, sia libresca che sentimentale, e sulle asperità del ruolo genitoriale.L’addestramento nei boschi, fatto tanto di prove fisiche quanto di sfide intellettuali, è una chiara metafora di quell’educazione completa alla vita che un genitore aspira a dare ai figli. Ma la volontà di confinarli nella foresta ci parla di un timore verso quelle stesse difficoltà da cui i ragazzi stanno imparando a difendersi e, contemporaneamente, di un sogno protettivo, una bolla di innocenza primordiale. È attorno a questo snodo che si struttura l’ambiguità del protagonista, illuminato e assieme limitato da egoismi paterni che vorrebbero imporre sui figli un destino già scelto. E la difficoltà di comprenderli, in rapporto ad un contesto presente, socialmente e idealisticamente storicizzato, che probabilmente sfugge nell’abisso dello scarto generazionale. È negli anfratti di questa riflessione (e nella performance sensibile di Viggo Mortensen) che il film trova un suo reale motivo di interesse, scavalcando le forme colorate e furbette di cui si fa solo esternamente portatore.
Ad una prima parte che sfoggia un ingenuo trionfo idealista, spalla a spalla con la visione del padre, segue una seconda parte che mettere in scena un’ambigua disfatta, cioè dove i metodi di Ben vengono messi in discussione fino al punto da pensare che, forse, l’aderenza ai simulacri della società capitalista sia in fondo la scelta più adatta per vivere in una coerenza storica con il mondo. Tocca così al finale chiudere il cerchio, mediando fra una presa di coscienza dell’ineluttabilità della sconfitta reale e la volontà di non disperdere l’energia della proposizione ideale. Il canto finale è dunque una scena tanto hipster quanto potenzialmente irritante, ma anche puramente emotiva e, se si abbraccia una lettura ambigua della narrazione, assieme malinconica e brillante.

Il secondo lungometraggio da regista dell’attore Matt Ross contiene un intero vissuto di sistemi morali in dialettica ed è, nella prima parte, un film politico controrivoluzionario come non se ne vedevano da anni, se si eccettua l’insieme di valori portato avanti da un altro film indipendente americano del periodo, Re della Terra Selvaggia (simile ruolo della figura paterna, oltretutto): questione di convinzioni, non di situazioni (già viste in La Belle vie di Jean Denizot, Vie sauvage di Cédric Kahn). Nel primo blocco narrativo, regista e figli del protagonista sposano appieno il contro-sistema di vita di Ben (Viggo Mortensen ha contribuito anche con idee e dialoghi): Matt Ross (anche sceneggiatore) inietta tracce autobiografiche, avendo passato l’infanzia con i genitori in una comunità del Nord Carolina. Valori sessantottini, da hippy, fra marxismo e critica al consumismo. L’atto è politico e potente perché mette in discussione il sistema di credenze dello spettatore, borghese e civilizzato, mostrando l’efficacia e l’integrità di un sistema di vita alternativo, fra ritorno alla natura, fondamenti di caccia e difesa, istruzione fondata sull’analisi e non sulla memorizzazione, etica della verità a tutti i costi e della responsabilizzazione. In un secondo momento, nasce il confronto dialettico con un’altra faccia della medaglia la cui effige, però, sembra disegnata in modo più sbrigativo, come se il regista avesse ben introiettato gli insegnamenti dei genitori ed elaborato meno questa seconda via “di compromesso”. Dopo aver lanciato, cioè, un sasso che spacca il vetro (è un dramma, si prende sul serio, nonostante l’amabilità della vita che rappresenta), la mano viene ritirata dal “guru” stesso nella finzione, salvo rinvenire un’esistenza che sia una “via di mezzo” (dove finiscono i nonni e tutte le loro minacce?). Un’elaborazione-maturazione che persuade meno della ‘repubblica di platone’ agognata prima, ma forse è solo una questione di gusti.