TRAMA
Diane (Emmanuelle Devos) ha perso suo figlio. Da allora non ha altro che l’ossessione di vendicarlo. Ritiene di aver trovato i responsabili, si procura una pistola, ma…
RECENSIONI
Le cose a volte sono diverse da come si immaginano. Il che non è una grandissima scoperta, ma è pur vero che gli esseri umani tendono a ripetersi: la protagonista Diane ricalca un percorso noto, quello del desiderio di vendetta come disperata compensazione di una perdita; il film sviluppa un tema non nuovo con una patina seminuova immersa e isolata nella Svizzera lacustre.Ne risulta un thriller piacevolmente lento, ma anche inconsistentemente lento. Le occasioni di fascino, legate principalmente alle dinamiche interne fra i personaggi, al loro mistero personale, sono accennate e decadono, liquidate in stereotipi (lo pseudo-complice/amante, l’ex-marito apprensivo, la figlia ribelle, il tombeur de femmes), in svolte, se non prevedibili, quanto meno non eclatanti. Lo sviluppo della trama è una diluizione progressiva della tensione che non aiuta alcun colpo di scena e forse nemmeno lo desidera, incentrandosi più che sul ritmo e sulle dinamiche di genere, sull’ambiguità dei personaggi, sulla loro estraneità, sul loro esistere in ruoli predefiniti e fallibili.Questa stessa fallibilità è un tratto interessante, il “colpo di scena-non colpo di scena” che vede nell’attore di un’azione, letteralmente qualcuno che “agisce” solo perché è il suo ruolo in un dato momento. Ma l’azione si smonta, il progetto sfuma, spiazzato da ciò che non aveva previsto: la realtà spicciola oltrepassa il ruolo imposto, ne svela l’impostura.Tuttavia questo film, che è la storia di una vendetta spezzata nel suo tragitto lineare dall’incrocio con altre vite umane e con le loro complicatezze e banalità, non sviluppa particolari analisi o empatie con alcun personaggio, al massimo predispone a un certo rammarico per una vittima ingiustamente designata.A sostenere un discorso in cui la vacuità spesso supera il mistero, il fascino di due donne antagoniste poste in un ambiguo contesto di complicità, in cui emerge il dato più interessante di tutto il film, quello che drammatizza l’età e il desiderio: la non giovane Diane ha una relazione estemporanea con un ragazzo, procura ancora gelosia nel marito (la scena-scenata al tavolo del ristorante fra i due è uno dei momenti più traballanti del film), seduce involontariamente il compagno di un’altra; l’altra, per quanto “molto bella per la sua età”, età tuttavia impronunciabile, è tenuta su dalla vaporosità del centro estetico che gestisce, ma non attiva più alcun desiderio e ha come ulteriore ignota rivale la sua stessa figlia -eppure, proprio nelle nuove generazioni si infrangono i propositi vendicativi cui si sostituisce l’elaborazione del lutto attraverso la condivisione dei ricordi-.Personaggio doloroso quest’ultimo, interprete la sempre affascinante Nathalie Baye, capace di un’aria oscillante tra l’affabile e l’autoritario con taciute fragilità, Baye che ha lavorato con Godard, con Chabrol, con Spielberg e, più recentemente, con Dolan (due volte madre: del Laurence Alia di Laurence Anyways e del Louis-Jean di Just la fin du Monde) e che invece nel film franco-belga-lussemburghese La volante (2015) interpretava una madre in cerca dell’assassino accidentale di suo figlio, in pratica il ruolo della Emmanuelle Devos-Diane di Per mio figlio.Nella traduzione italiana si perde il riferimento al colore della macchina incriminata che è invece il titolo originale del film, Moka, già nome del romanzo di Tatiana de Rosnay da cui è tratto.Dettaglio cromatico interessante perché sintetizza un’ossessione in modo diretto e visuale, con un cenno lussuosamente vintage alla verniciatura della carrozzeria di un oggetto di consumo diventato oggetto di morte e tramite inanimato di una vendetta.