Recensione, Thriller

HUSH

Titolo OriginaleHush
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2015
Genere
Durata87'
Fotografia
Montaggio

TRAMA

La scrittrice sordomuta Madison Young riceve la visita di un uomo mascherato che vuole ucciderla.

RECENSIONI


Mike Flanagan affronta l’home invasion: scritto con la moglie Kate Siegel che lo interpreta, Hush (Silenzio) è un piccolo film low budget che si presenta come dichiarato esercizio di genere. Il regista di Oculus parte dalla presunta vittima sordomuta, topos che riecheggia La scala a chiocciola di Siodmak (Maddy come Elena/Dorothy McGuire nel noir del 1945), e la immerge nei feticci ipertecnologici dell’oggi, da whatsapp a skype: scenario posto per sottolineare la diversità di Maddie, costretta ad affidarsi a mezzi alternativi a quelli verbali-auditivi per comunicare, e questo le impedisce di chiamare aiuto. Nella connessione perenne del contemporaneo l’invasore non viene udito, ma è intravisto in secondo piano dall’interlocutore in videochat: e per Maddy a far scattare l’allarme è un fotomessaggio che ritrae se stessa, inviato dal proprio iphone. Il tecnologico, per lei, è supporti visivi e vibrazioni. Flanagan accenna elementi e poi li lascia per deviare sul meccanismo puro: la protagonista, scrittrice sordomuta che sente la sua voce interiore (e noi fuori campo), vive in un isolamento fatto per essere violato. Presentando la situazione esplicita, e puntualizzandola (“Eri bambina quando ti sei ammalata”, le dice Sarah), il regista definisce un’atmosfera di rischio imminente e mostra, in poche battute, lo stereotipo dell’intruso mascherato (John Gallagher Jr.) segnato graficamente solo da un tatuaggio. Non ha movente il killer né motivo per restare anonimo: si toglie la maschera dopo 25 minuti e così - paradossalmente - aumenta l’effetto ansiogeno, perché inquieta più il volto nitido di un pazzo.


La regia assume la prospettiva di Maddy che, dall’inizio, non sente urlare l’amica e non si volta mentre noi la vediamo agonizzare: scatta un gioco tra primo e secondo piano, un dialogo tra soggetto dell’inquadratura e figure sullo sfondo. L’invasione senza la possibilità per la vittima di sentire rumori nega un presupposto “storico” dello slasher, il pericolo annunciato dal sonoro: la cinepresa avvolge la protagonista e le gira intorno per aumentarne la supposta impotenza. E così si innesca lo scontro atavico: l’uomo diventa cacciatore e la donna preda, in una metafora che ricade nel concreto con l’uso dell’arco e le frecce. I due, da manuale thriller, si scambiano i ruoli e l’intervento dell’aiutante (il vicino di casa) serve ad ingrandire lo splatter. La voce dentro Maddy in trappola, verbalizzando al suo posto, analizza la situazione ipotizzando vari scenari e vie di fuga, e Flanagan visualizza il mentale mostrando i finali, senza offrire una possibile soluzione. La chiusura, però, beffa il mostro proprio a livello percettivo: nella mirabile ripresa prefinale, quasi coreografica, non si sente il suono ma si percepisce il respiro. E l’esito è affidato a un soffio. Il cineasta si conferma artigiano di genere con una personalità propria che risiede nel rimasticare l’archetipo (il fantasma di Absentia, le visioni di Somnia e così via): tutto al suo posto, automatismo efficace e qualche guizzo. Il canovaccio è la sostanza del film: avviata la lotta il piacere è nell’ingranaggio, la vaga curiosità per come può finire. Flanagan ce lo dice con polso solido e a tratti coraggio, come nella sequenza che srotola la vita davanti a Maddy in fermi immagine, sfidando il ridicolo senza perdere plausibilità di genere.

Il film è disponibile dall’8 aprile 2016 sulla piattaforma Netflix.

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