TRAMA
11 Settembre 2012: un gruppo di militanti islamisti attacca un accostamento diplomatico americano. Una squadra di sicurezza composta da sei membri lotta per difenderlo.
RECENSIONI
Dopo Pain & Gain, col quale Bay aveva tentato di uscire dalla gabbia critica nella quale si è – a onor del vero - chiuso da solo, ecco 13 Hours, secondo passettino verso l’emancipazione dalla fracassonata alla Michael Bay. Quasi. Perché lo stile, se così si può chiamare, rimane più o meno quello: i ralenties ci sono, la macchina da presa perennemente mobile, pure, le continue correzioni di inquadratura, anche, così come i cambi di messa a fuoco figura/sfondo e, in generale, un numero di piani che dà l’idea di superare in scioltezza i 600 del film con montaggio classico. Ma cosa balza all’occhio? Sicuramente, un approccio teoricamente più maturo alla materia trattata, oltre che la materia trattata stessa. La tetralogia dei Transformers, per dire, è riassumibile in “600 e passa minuti di robottoni che si prendono a schiaffi mentre radono al suolo intere metropoli”. Pain & Gain, per converso, aveva qualche ambizione in più, derivante dal fatto che si trattava di una storia vera trattata con piglio antinaturalistico (cfr. Domino, Tony Scott) che mirava a ironizzare sul Sogno Americano coprendolo di grottesco (in maniera superficiale e poco efficace, ma non spacchiamo il capello in quattro). Con 13 Hours il tiro si alza ancora di più. Di nuovo una storia vera ma più recente e attuale, con Gheddafi e rimandi diretti all’11 settembre, classica americanata che, passando per vie neanche tanto traverse e per un generico “alla fine con la guerra ci rimettono tutti”, torna all’Americanata senza Se e senza Ma.
Ora, il problema qual è? Il problema è quel “più o meno” che si diceva in apertura. Ossia: con la smania di prosciugare un po’ il proprio cinema e di conferirgli un’aura più socialmente accettabile, Bay applica più o meno il suo modus filmandi, evitando accuratamente gli eccessi più ludici. Ma il rischio, non da poco, è che del suo cinema non rimanga niente, o almeno, pochino pochino. Un cinema che fa proprio degli eccessi e del parossismo cinetico quasi la sua ragion d’essere, se tenta di darsi una regolata, si priva dei suoi unici motivi di interesse e scivola verso qualcosa di indefinibile, perennemente a metà del guado. Col senno di poi, viene voglia di rivalutare l’omologo Pearl Harbor, in cui la Storia faceva da sfondo a un telenovelesco triangolo amoroso e i caccia della Seconda Guerra Mondiale erano veloci e agili come X-Wing. Il Michael Bay di 13 Hours, al netto di qualche svisata autoreferenziale (i personaggi che si lamentano che in Libia “non si capisce chi sono i buoni e chi sono i cattivi”, anticipando il contenuto di alcune sequenze concitate del film) e di una scolastica capacità di creare/mantenere una certa tensione, è un regista sostanzialmente anonimo, che “ricorda molto Michael Bay”, e che gira un film retorico (con sconfinamenti nel ridicolo) ma non abbastanza da diventare davvero divertente e che si prende sul serio ma non riesce a farsi prendere sul serio.