Bellico, Drammatico, Sala

GOOD KILL

Titolo OriginaleGood Kill
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Durata100'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Prima pilotava aerei durante le missioni in Medio Oriente, ora da una base del Nevada comanda a distanza droni che uccidono nemici lontani, dall’altra parte del mondo, eppure così vicini dentro lo schermo della postazione di Tommy. Un uomo e la sua guerra: crisi, identità e legami che scricchiolano sempre più pericolosamente.

RECENSIONI

Tommy Egan (Ethan Hawke), una moglie e due bambini, ha imparato a volare ma da un po’ è tornato a terra. Dopo anni di missioni all’estero a solcare con il suo aereo adrenalinici cieli di guerra, il pilota dell’aeronautica militare degli Stati Uniti svolge ora il proprio lavoro in poltrona, dentro un container, in un campo ai bordi desertificati di Las Vegas; finito il turno può tornare a casa come un impiegato qualsiasi. Più precisamente, ciò che fa è comandare droni, velivoli senza aviatore: gli basta dunque posizionare bene il mirino sullo schermo per individuare l’obiettivo, premere un tasto e in una manciata di secondi quei nemici d’America che cambiano nomi (talebani, jihadisti, terroristi) ma non sostanza, a migliaia e migliaia di chilometri saltano in aria. È fatta, la formula in due parole, “Good kill!”, colpo letale.
Ma è anche, Good Kill, un Andrew Niccol che mette da parte le sue distopie per un based on actual events. A leggerlo lungo il tracciato della sua filmografia, sembra la drammatica messa in ridicolo del sogno dello spazio di Ethan Hawke in Gattaca, perché anche Tommy Egan alza gli occhi al cielo, quando non lavora, vagheggia spazi aerei, ma in quello sguardo c’è la sua progressiva alienazione, c’è il baratro di chi vorrebbe tornare a pilotare per davvero un caccia, mentre si incuneano insidiosi e profondi i dubbi su ciò che fa, a prescindere che il bersaglio siano terroristi o civili, donne e bambini.

E Good Kill – in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 71, nel 2014 – è questione dello sguardo, anche se in parte trattenuta dalla narrazione, dalla storia, vale a dire quel perimetro che da sempre in Niccol è centrale. È un film che pare variazione sul tema (anche qui, l’occhio è una tecnica, è artificio), il rovesciamento umorale del viaggio del proiettile dal momento della sua fabbricazione fino alla testa di un bambino africano nell’ironia amara dei titoli di testa – quasi un cortometraggio a sé – di Lord of War. Dal gioco virtuosistico lì concentrato in una parte minima del racconto al videogioco della guerra, alla sua mutazione tecnologica che ha trasformato i militari in giocatori di Wii. Di quei villaggi di sabbia in Afghanistan e dei loro abitanti continuamente scrutati, la sua villa a schiera in un viale anonimo e la moglie (January Jones) e i figli che ogni giorno lo aspettano sono il controcampo dove lo smarrimento di Tommy è disegnato in un corpo che non sa più godere, in parole che stentano a prendere suono, che non si tramutano in dialogo. Pian piano il protagonista si disumanizza ovvero perde sostanza umana, si sfalda e smarrisce, non è qui nel suo tempo e nel suo spazio e non è lì nei teatri di una guerra che ha subito una metamorfosi totale, «si relaziona più ai bersagli che osserva e ai loro familiari che alla sua stessa famiglia» spiega il regista neozelandese nelle note al film, ed è in questo la complessità del suo personaggio: il dolore di Tommy è l’unica zona invisibile, non può esserci mirino a inquadrarla, un joystick a definirne nettamente i confini.

Tommy è un american sniper deprivato, non agisce per davvero, in campo, ma le sue azioni hanno conseguenze più letali e, per questo, dice di sentirsi un vigliacco, di non combattere, di non rischiare nulla, gli manca la paura che lo attraversava quando era in volo e la morte sempre vicina che dava senso alla vita. È diventato un antieroe senza volerlo, un cecchino d’appartamento, e qui sta la verità di Tommy, la sua confusione, la sua identità che non sa trovare nuovi approdi e non riesce più a possedere quelli che credeva consolidati. E allora, sì, la collisione, l’aspetto più interessante (e anche le imperfezioni, le sproporzioni) di Good Kill, è in questo conflitto tra spazio sociale e privato, tra drammaturgia e sguardo. Una teoria della visione scarnificata di autorialità, dentro una storia americana, dentro un film di personaggi, dentro scollamenti esistenziali, mentre luci e spettacolo di Las Vegas sono un intermezzo, un insensato paradossale lato B. Good Kill è un un’antifrasi cinematografica, sono gli occhi assediati del nostro tempo.

Coerente con l’angolazione del suo sguardo sul mondo, Andrew Niccol riflette ancora sull’effetto di una nuova tecnologia, di un apparato di finzione che diventa reale nel momento in cui invade la coscienza, con implicazioni etiche sulle convinzioni del singolo in un contesto più contingente che futuribile (una fanta-guerra basata, invece, su fatti e tecnologie esistenti). L’assunto è più banale dei modi per ribadirlo: il male di vivere del soldato Egan nasce da una guerra virtuale in cui non rischia nulla e non si “sporca le mani” come i compagni (che finiscono su di una mina e non può proteggerli): non lo consola poter tornare ogni sera da moglie e figli con casa perfetta. La complessità s’annida nei dettagli: il malessere di Egan è precedente alle vittime innocenti implicate dalle nuove direttive Cia. Per l’essere umano (evoluto) è insapore la caramella ottenuta senza essere meritata. Per l’indole del guerriero non è la stessa cosa uccidere premendo un bottone o in azione: Egan ha bisogno di sentire la paura, l’adrenalina. Sul piatto anche le ragioni di un paese spaventato dai terroristi: attraverso il personaggio di Bruce Greenwood che porta avanti la “ragionevole” ragion di Stato, infatti, il film imbastisce un discorso dialettico, pur assumendo che esistono anche esseri che non provano rimorso e una Cia capace di anestetizzare la coscienza per le vittime di guerra. Niccol sonda le sfumature di grigio, le ragioni, i punti di vista che si dipanano da due estremi, fino a sposare la ribellione, la diserzione ma anche un finale eroico meno coerente, in cui salva l’insalvabile in un atto da cinema-sogno (non condanna il drone in sé come arma, gli dona un altro obiettivo). Passo doloroso e ponderoso, lontano dal film di denuncia epidermico e aprioristico.