TRAMA
Nel 2005 l’eccentrico manager di un hedge fund Michael Burry scopre che il mercato immobiliare statunitense è estremamente instabile, essendo basato su mutui subprime ad alto rischio. Giungendo alla conclusione che il mercato crollerà e identificando il probabile punto di inizio della crisi nel secondo trimestre del 2007, si rende conto che si possono trarre profitti da questa situazione…
RECENSIONI
La grande scommessa è il primo film diretto da Adam McKay senza Will Ferrell nel cast, nonché, secondo la vulgata corrente, la prima “incursione in territori più drammatici” del regista statunitense. Formidabile direttore d’attori, a sua volta nato come interprete e per lungo tempo attivo in gruppi di improvvisazione teatrale, rifiutato come comico dal Saturday Night Live, per il quale però è diventato autore di testi, McKay con Ferrell collabora da oltre un decennio, dal primo Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy (2004); insieme hanno poi fondato il sito Funny or Die e la casa di produzione Gary Sanchez Productions (intitolata dai due a un fittizio “imprenditore e uomo di finanza paraguagio”: basterebbe questo a sintetizzare fulmineamente la comicità raffinata e grottesca del duo). L’assenza di Will Ferrell da La grande scommessa ci pare non tradimento, bensì conferma della complicità fra i due: il film è, nella sua interezza, un trattato sulle modalità di rappresentazione della realtà da parte del cinema e della tv statunitensi, e uno dei livelli di lettura dell’opera è la sottile e costante sfida alla percezione del pubblico. Così, per trattare la materia “seria” e “drammatica” della crisi che nel 2008 ha soggiogato i mercati mondiali, il volto di Will Ferrell sarebbe risultato fuori luogo, troppo marcatamente legato alla comicità, anche demenziale, cui le collaborazione fra lui e McKay hanno abituato gli spettatori. McKay sceglie, invece, attori blasonati come Christian Bale e Brad Pitt (qui anche produttore e fornitore di “marchio di fabbrica” con la sua Plan B, che da qualche anno a questa parte finanzia lavori impegnati e politicamente schierati come 12 anni schiavo, Selma o The Normal Heart), volti non esclusivamente drammatici ma ormai habitué del cinema di spessore come Ryan Gosling e Steve Carell (anch’egli proveniente dalla strepitosa squadra comica di Anchorman, ma grazie a Little Miss Sunshine e, soprattutto, al mimetismo sconvolgente di Foxcatcher, “promosso” ad attore serio).
La squadra è così formata, quattro pezzi da 90 che annunciano fin dai trailer, fin dal cartellone: qui si parla di roba seria, fate attenzione. Una volta attirata questa attenzione, e stabilita la serietà della materia, McKay si diletta nel dimostrare che, tuttavia, l’unico modo di conquistare la concentrazione del pubblico americano è farli ridere, rivestire ogni cosa di allure pop, di cultura di massa. Così i suoi attori da Oscar sono trattati come corpi comici, rivestiti di tic e parrucche improbabili, mentre affrontano questioni di finanza globale e gestiscono affari da miliardi di dollari: sono buffi, goffi, grotteschi. Fatta salva la differenza sostanziale che di storia vera si tratta, laddove quella di Ron Burgundy era leggenda, l’operazione di McKay è la medesima: anche la saga di Anchorman affrontava di petto, sfacciatamente, tematiche pesantissime della cultura statunitense quali sessismo e razzismo nei media, raccontando il dietro le quinte di un telegiornale tramite una farsa di baffi e parrucche anni 70. Dietro la commedia demenziale, c’era una sferzata satirica alle modalità di narrazione dei media statunitensi (la spettacolarizzazione degli inseguimenti polizieschi per esempio) che trova in La grande scommessa una perfetta continuazione.
Quello della crisi e del crollo del mercato immobiliare che va in scena nel film è infatti soprattutto un problema di rappresentazione, come già sottolineato da Leonardo Gandini; come portare su grande schermo le bolle finanziarie, la Borsa, Wall Street? Come rendere corporee le stringhe di numeri che passano occulte sotto i nostri occhi a ogni edizione del tg? C’è un modo di renderle reali agli occhi di un pubblico assuefatto e disattento? Così intervengono, a rompere la quarta parete e a interrompere due ore filate di montaggio nervosissimo e dialoghi fitti, celebrità nei panni di se stesse, a semplificare con metafore grossolane e spiegoni a base di buon senso ciò che i termini astrusi della finanza rendono incomprensibile: Margot Robbie immersa nella schiuma, parodia o semplice replica di se stessa in The Wolf of Wall Street; il cuoco/opinionista/scrittore Anthony Bourdain, con gli avanzi di pesce che servono per la zuppa del giorno dopo; la stellina pop Selena Gomez, che torna a prendere gioco di se stessa dopo Spring Breakers, a un tavolo di Las Vegas. Sono la protagonista di un film estremamente popolare sul tema della finanza, il personaggio televisivo di programmi per pubblico borghese e la popstar più amata dagli adolescenti: figure prelevate dalla cultura popolare di cui il pubblico si nutre, capaci di ottenere l’attenzione, usati per lassi di tempo brevissimi. Il problema, come affermano spesso i protagonisti del film e come McKay ribadisce con la sua messa in scena, è l’incapacità di guardare perché nessuno (tranne i quattro uomini al centro della narrazione, alcuni dei quali realmente esistenti) si era accorto che il mercato immobiliare americano era prossimo al collasso? Dove stavano guardando? L’americano medio, bianco maschio e privilegiato, vede ciò che vuol vedere, non cerca oltre. Non sa come funzionano tutti quei numeretti scritti in piccolo, non gli interessa; non hanno un corpo, finché non hanno quello di Margot Robbie nuda o del cuoco del loro show gastronomico preferito. Gli stessi protagonisti del film, i giovani broker all’arrembaggio che hanno Brad Pitt come mentore, sono stupefatti dalla realtà quando entrano fisicamente nei locali deserti della grande banca: “Me l’immaginavo diversa”, dicono, “E come?” ”Pensavo che ci fossero degli adulti”. Il mercato è gestito da idioti, scoprono con orrore i personaggi del film, o meglio: è gestito da adulti che si comportano come ragazzini, avidamente e incoscientemente, votati al consumo e alla fruizione immediata dei beni. La stupidità sembra essere parte integrante del Sogno americano, spessa abbastanza da coprire i dubbi sulle possibilità concrete di fallimento.
In questo senso, La grande scommessa è un film didattico, in cui Adam McKay prosegue il suo discorso sulla cultura americana e usa nuove e più affilate armi per aprire gli occhi al pubblico: suo alter ego nel film, il personaggio del genio della finanza ritiratosi a vita privata interpretato da Brad Pitt è colui che elargisce moniti e rimproveri ai due giovani pupilli. Quando i ragazzi si esaltano per la quantità di soldi che stanno mettendo insieme scommettendo sulla certezza della crisi imminente, lui ricorda con severità che non c’è niente da ridere, non c’è niente da esultare: milioni di persone resteranno senza lavoro, e c’è una precisa equazione a sostanziare il rapporto numerico fra disoccupazione e morte. Così il film, nel suo complesso, assume la forma di una sfida e di un monito, di un lucido e disperato tentativo di far riflettere sul modo in cui fruiamo la realtà e la versione che di essa propongono i media, sul livello di attenzione che elargiamo alle cose e sulla nostra capacità di concentrarci su cose complesse ed estese nel tempo, anziché su frammenti di godibile immediatezza. Quando l’uomo saggio che indossa una parrucca ridicola ci spiega che l’economia globale sta collassando, noi ci spaventiamo o ridiamo della parrucca?