Commedia

IL SAPORE DEL SUCCESSO

Titolo OriginaleBurnt
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2015
Genere
Durata107'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Costumi

TRAMA

Adam Jones è un famoso chef con due stelle Michelin, abituato a vivere come una rockstar dei fornelli. In seguito a scelte sbagliate e nodi irrisolti con il passato la vita gli presenta il conto. La decisione di conquistare l’ambitissima terza stella Michelin diventa per lui un’opportunità di riscatto e per tentare l’impresa riunisce una squadra eterogenea e talentuosa di cuochi.

RECENSIONI

La cucina come una pista da ballo, o una terra di frontiera, o un magazzino abbandonato, o un qualsiasi luogo di scontro dove un gruppo di malcapitati, il più eterogeneo possibile, viene reclutato da un boss carismatico con uno scopo preciso: rubare qualcosa, vendicare qualcuno, dimostrare il proprio valore. Nel caso specifico conquistare l’ambitissima terza stella Michelin. L’unione che fa la forza, insomma, come cento anni di cinema (una sorta di heist movie armati di coltello e forchetta), e un po’ meno di vita, ci hanno insegnato. È questa l’unica originalità di Il sapore del successo, titolo sciocchino rispetto all’originale Burnt, “bruciato”, come il protagonista che dopo una vita dissoluta, tutta eccessi e impulsività, cerca di rimettersi in carreggiata dando prova a se stesso e agli altri del proprio talento. Talento ovviamente imprescindibile, perché lui è il migliore, solo che il caratteraccio e la vita lo hanno piegato, ma non spezzato. Suona un pochino trito e stereotipato? In effetti lo è, ma sono queste le coordinate con cui Steven Knight, in veste di sceneggiatore, apparecchia la tavola al regista John Wells che cucina gli ingredienti a dovere, pur con tutti i limiti del progetto: sfruttare la moda dilagante dei talent show televisivi a tema culinario, da “MasterChef” in poi, costruire un percorso a ostacoli piuttosto prevedibile e rispettare il mantra a stelle e strisce “chiunque nella vita ha una seconda opportunità”. Se non si pretende dal film qualcosa di più profondo o strutturato, e si sta quindi al gioco, le due ore scorrono fluide e piacevoli.

Certo, personaggi un po’ meno schematici avrebbero consentito una maggiore empatia; qui si deve dare per scontato il talento del protagonista, sabotato come da centomillesimo copione da boria e irascibilità, viene infilato a forza un personaggio femminile per porre le basi alla romcom, si cercano volti interessanti tra i comprimari (tra cui anche Riccardo Scamarcio), senza però sfruttarli a dovere. E si trasforma la cucina in un campo di battaglia dove, proprio sulla scia dei modelli televisivi evocati, la forma rischia di “mangiarsi” il contenuto. In questo senso la regia imprime ritmo all’azione, ma, paradossalmente, non riesce mai a far venire l’acquolina in bocca, esibendo grande fermento e piatti curatissimi senza però trasmettere odori, sapori, passione e desiderio sottesi a tanta dedizione. Il brodo di tartaruga di Il pranzo di Babette, insomma, resta modello inarrivabile. Una regia dinamica ma di pura superficie, quindi, proprio come il film. Poi, a un certo punto, il protagonista pare capire i suoi limiti, evidenti a tutti da tempo, decide di farsi aiutare con un supporto psicologico, mette da parte perfezionismo ed isteria e le cose per lui, e un pochino anche per noi, vanno meglio. Ma tutto avviene perché lo decide la sceneggiatura, senza una motivazione davvero forte capace di dargli quella scossa di cui ha bisogno facendogli sentire intimamente le cose che mostra di provare. E il successo, per fortuna più suggerito che urlato, è comunque dietro l’angolo, sancendo la riuscita di una rinascita con molte zone oscure, ovviamente trascurate dall’happy end. A livello di interpretazioni, colpisce la versatilità di Sienna Miller, meno le physique du rôle di Bradley Cooper, che ostenta più carisma di quello che sulla scena palesa.