TRAMA
Gabriel Drummer è un marine di trent’anni congedato dopo un catastrofico errore in Afghanistan. L’avvocato di Gabriel, Peyton Calvin, lo guida nel tentativo di fare chiarezza percorrendo l’instabile confine tra percezione e realtà. Gli spettatori sono condotti in un complesso labirinto pieno di violenti colpi di scena psicologici.
RECENSIONI
Dito Montiel filma in 24 giorni, «con una videocamera che riprendeva tutto quello che trovavamo in giro» (ipse dixit), e mette al centro del racconto Shia LaBeouf, che non trattiene l'intimo ed esaspera il dramma. Man Down pone una premessa: la dissociazione del marine Gabriel costruisce due livelli percettivi e soprattutto visivi, che si alternano e intrecciano tra loro. Il piano della 'realtà', ovvero la fiction drammatica dell'uomo traumatizzato di guerra, si interseca con il prodotto mentale dell'allucinazione, che elabora lo shock in negativo e non trova catarsi, al contrario scivola gradualmente in condizione di follia. Gabriel rievoca in flashback, nell'interrogatorio che nasconde una seduta di analisi fallita, risolta non in ricerca della cura ma nella registrazione della malattia. La confusione dei piani nella testa di Gabriel diventa tale che innesca una deflagrazione e, per rovesciamento, egli mette a rischio la sua famiglia, coloro che voleva proteggere prende in ostaggio. Man Down ha uno svolgimento evidente e urlato, sottolineato in ogni passaggio, sempre teso a puntualizzare un significato. «La guerra sta arrivando in casa», si dice, e di fatto irrompe nel nido domestico per concretizzare una metafora, ma sempre con sguardo empatico al protagonista, reso folle dal conflitto, vittima di una tragedia che ci trascina sulla sua posizione ripetendo il refrain sentimentale man down. Il film, oltre alla scrittura ridondante, delude proprio nell'inscenare il doppio livello su cui punta: la guerra 'vera' si sviluppa in una rappresentazione di genere risaputa e meccanica, il teatro mentale ripara in pochi cenni sbozzati da manuale del post-apocalisse.