TRAMA
Jake è un romanziere di successo, vincitore di un premio Pulitzer. Rimasto vedovo in seguito a un incidente automobilistico, si trova a dover crescere da solo l’amatissima figlia Katie. Un grave disturbo neurologico conseguente all’incidente, però, rischia di compromettere la sua capacità di accudire la figlia. 25 anni dopo, Katie è una giovane psicologa alle prese con la pesante eredità affettiva lasciatale dal padre.
RECENSIONI
Ha raccontato con grande successo di critica e pubblico il sogno americano (La ricerca della felicità), ha rischiato, sbandando, senza sedersi sugli allori (Sette anime), ha fatto flop con la commedia (Quello che so sull’amore). Alla quarta trasferta oltreoceano Gabriele Muccino, il regista italiano più esportabile, si butta nel dramma familiare, probabilmente più nelle sue corde considerando i titoli nazionali con cui ha raggiunto la notorietà (Come te nessuno mai, L’ultimo bacio, Ricordati di me e Baciami ancora).
Dietro le coordinate di un duplice racconto, con un padre ammalato che non vuole separarsi dalla figlioletta e quella stessa figlia venticinque anni dopo in lotta con i fantasmi del passato per concedersi di amare, i temi trasversali sono sempre quelli cari al regista: la scoperta di sé, l’approdo a nuove consapevolezze, il bisogno di lasciare tracce del proprio talento, il rifugio negli affetti come antidoto alle proprie insicurezze, la necessità di un riscatto finale. A questi si aggiunge l’ossessione tutta americana di dover dimostrare sempre e comunque di essere i migliori.
La carne al fuoco è quindi tanta, e con un’abile sceneggiatura le premesse potevano tradursi in un solido dramma, convenzionale ma commovente ed emozionante. Purtroppo, però, lo script di Brad Desch, inserito non si sa come nella Black List del 2012, affossa completamente il film, non limitandosi a semplificare (il cinema opera di sintesi, è inevitabile) ma appiattendo ogni possibile implicazione, tra l’altro con un moralismo di fondo insopportabile. Colpa di personaggi monocordi che prendendosi terribilmente sul serio attraversano il racconto mostrando un’unica faccia, di psicologismi urlati allo sfinimento, di parallelismi scolastici, di conflitti risolti a suon di scene madri, di svolte ricattatorie e di frasi fatte declamate come verità assolute.
Muccino fa quel che può per districarsi nel pantano della narrazione trovando una misura sulla carta apprezzabile, che anziché esasperare situazioni già esasperate cerca di sviscerarle, interpretarle, metterle in scena alla giusta distanza, ma finisce per costruire un teatrino, privo di qualsiasi ironia, con personaggi di carta, incapaci di trasmettere la benché minima emozione perché fasulli. Non si crede un secondo a quel padre in cui la malattia compare solo quando fa comodo all’incedere del racconto, a quegli zii rigidi, austeri e ricchissimi che paiono venire da un altro film e un’altra epoca, a quella bimba nera traumatizzata che ritrova la speranza (e impara ad andare in bicicletta) al secondo schiocco di dita, a quel fidanzatino buono e comprensivo che nel momento in cui la protagonista mostra le sue debolezze, anziché aiutarla, sbraita, fa le valigie e se ne va.
Il cast di lusso contribuisce all’appeal del film, garantendone l’attenzione internazionale, ma non sempre valorizza davvero i personaggi. Russell Crowe, anche produttore, ha come sempre una forte presenza scenica, ma sembra più il nonno che il padre della bambina; Diane Kruger si limita a vestire la donna algida, Aaron Paul è forse il più convincente, mentre Quvenzhané Wallis, Octavia Spencer e Jane Fonda hanno ruoli puramente decorativi. Più conflittuale il rapporto con Amanda Seyfried, protagonista assoluta, dedita alla causa con convinzione ma con un viso da cartone animato in cui si faticano a ritrovare ombre, inquietudini e sensualità del personaggio.
L’unica rivelazione è la piccola Kylie Rogers, un vero portento, di quelle che ti immagini sbaragliare la concorrenza in grotteschi concorsi per bambini prodigio. Non manca, poi, una stoccata alla critica ("Non so perché Dio abbia creato gli scarafaggi e i critici" dice lo scrittore alle stroncature ricevute al suo libro), spesso, soprattutto quella italiana, esageratamente ostile ne confronti di un regista che dovrebbe solo scegliere con maggiore cura e fiuto i film in cui investire il proprio talento.