TRAMA
Il comandante Claus Michael Pedersen e i suoi uomini stazionano nella sede di Helmand, in Afghanistan. Nel frattempo in Danimarca, con il marito in guerra e tre bambini desiderosi di riabbracciare il padre, la vita di tutti i giorni diventa una lotta per Maria, la moglie di Claus. Durante una missione di routine, i soldati si trovano nel mezzo di un attacco da parte dei talebani. Per salvare i suoi uomini, Claus prende una decisione che lo porterà ad essere accusato di un crimine di guerra.
RECENSIONI
Il dilemma etico è il cuore del cinema di Tobias Lindholm. Al contrario di Kapringen, in cui si negoziava la sopravvivenza coi pirati, qui un uomo (lo stesso attore, Pilou Asbaek) ha già causato una tragedia e deve trattare la propria libertà dinanzi all’eventualità della condanna. Non c’è giusto né sbagliato, ma solo la complessità di una situazione in questo film tagliato in due: la prima parte, calata in fieri nel teatro di guerra, esplosiva e terrigna, che prepara la seconda processuale, dramma psicologico da camera. I due stralci dialogano tra loro e si rimandano a vicenda: la concitazione del conflitto con le sue reazioni d’istinto cerca “ordine” a posteriori nella razionalità dell’aula, il processo prova a rivedere, organizzare e spiegare l’azione di guerra in cerca di una verità (forse) inconoscibile. Se parte sempre da un archetipo, la liceità dell’azione umana in tempo di guerra, Lindholm si conferma acuto interprete della scrittura psicologica: il regista, sceneggiatore di Vinterberg (Il sospetto, non a caso, script che rima con questo), mentre il film si sviluppa problematizza le questioni, arrovella i nodi, fa nascere dai dubbi altri dubbi. Come ha agito Claus, è colpevole o innocente? Sul crinale tra la giustizia e l’inevitabile, ancora una volta sarà il gesto arbitrario di un singolo a provocare la svolta e indicare uno scioglimento: soluzione che basta per la comunità degli uomini, nella forma di un’aula giudiziaria, ma non risolve il dilemma che resta intatto. Alcune titubanze, un parallelismo di troppo (i figli di Claus/i bambini uccisi), qualche esagerazione bieriana sul dramma (le scene in famiglia), ma soprattutto un’abilità indubbia nella resa dei rovelli interiori che qui si conferma e rinnova. La guerra del titolo è dunque sia il campo di battaglia che il conflitto psicologico, ed è anche una possibilità tra tante, una guerra (a war) come possono essere infinite altre.