Recensione, Western

THE SALVATION

Titolo OriginaleThe Salvation
NazioneBelgio/ Danimarca/ Regno Unito/ Sudafrica/ Svezia
Anno Produzione2014
Genere
Durata92'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

America, 1870. L’immigrato danese Jon riesce, dopo anni di attesa, a portare la moglie e il figlioletto negli Stati Uniti. Non appena la famiglia si riunisce, però, gli eventi degenerano.

RECENSIONI

A dispetto delle cassandre che dopo Soldato Blu (1970) ne presagivano la fine, e non un’evoluzione, il genere western ha dimostrato una vitalità inaspettata. Periodicamente, infatti, terre di frontiera assolate e polverose diventano teatro di rese dei conti all’insegna del machismo, dove l’ultima parola è di chi spara per primo. Sulle atmosfere desolate e ruvide l’ombra della malinconia, con un’ipotesi di infelicità, dietro all’apparente ricostituzione degli equilibri, tutt’altro che remota. Ne sono esempi, per restare a tempi recenti, il sentire dolente di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007), la solidità di Appaloosa (2008), l’originalità dello sguardo di Meek’s Cutoff (2010), ma anche i giocattoloni Cowboys & Aliens (2011) e The Lone Ranger (2013). Tutti accomunati dall’insuccesso. Ad ottenere numeri positivi ce la fanno solo i fratelli Coen, con il remake de Il grinta (2010), e Quentin Tarantino con Django Unchained (2012), ma si tratta di autori con una forte personalità in grado di bypassare l’anacronismo del genere. La domanda a questo punto è: cosa può aggiungere al puzzle un nuovo tassello? La curiosità è quindi tutta nel vedere come una voce fuori dal coro interpreta il mito, soprattutto se tale voce proviene dalla Danimarca ed è quella di Kristian Levring, uno dei fondatori di 'Dogma 95'. Sarà omaggio, rielaborazione oppure provocazione? Il risultato è un perfetto compendio delle tre variabili. L'omaggio si traduce in un'adesione totale al genere di riferimento, con tutti gli stereotipi del caso cavalcati (è più che mai il caso di dirlo) con consapevolezza, a partire dal soggetto. Il protagonista è infatti un danese espatriato per cercare fortuna che dopo sette anni di lontananza dalla famiglia riesce a ricongiungersi in terra americana con la bella moglie e il figlio che non ha mai visto. A un prologo molto teso, in cui l'oltraggio si compie, segue l'inevitabile vendetta, complicata dalla mancanza di solidarietà degli abitanti del piccolo villaggio, terrorizzati dal cattivissimo boss locale ammazzatutti. Se il “cosa” pesca a piene mani nel noto, con i temi classici di vendetta, riscatto e (in)giustizia, il “come” si distingue per l’efficacia della messa in scena, più evocativa che realistica: il buio della notte che incombe e anticipa la tragedia, la luce accecante del giorno a sottolineare la durezza di espressioni e stati d’animo, la polvere sempre presente, l’immenso cielo che può limitarsi a osservare. La computer grafica, quasi impercettibile eppure riconoscibile, produce uno straniamento che rimarca la natura postmoderna del progetto, girato in un Sudafrica che non sfigura affatto rispetto alle vaste distese americane. Il villaggio in cui è ambientato il racconto diventa un palco su cui si avvicendano caratteri scolpiti e luoghi comuni in cerca di svolte che, dietro l’ordinarietà dei conflitti, gettino anche una nuova luce sul contesto. Ed è qui che si concretizza la rielaborazione operata da Levring che resta fedele all’immaginario, ma lancia anche schegge in grado di parlare al presente. Il tema dell’immigrazione è infatti più di un semplice aggancio e diventa un collegamento con la contemporaneità e con la storia dell’Europa. Le difficoltà di inserimento del protagonista in una terra ostile, incapace di trasformare i sogni in realtà, sono le difficoltà di tutti quelli che hanno cercato una vita migliore al di fuori del proprio paese di origine, in passato come oggi. E non è un caso che quella terra sia l’America, e qui sta forse la provocazione, da sempre nel mirino degli aderenti al Dogma come luogo in cui gli ideali di pace irrimediabilmente si infrangono nella violenza delle azioni, attraverso l’imposizione di una, e una soltanto, visione del mondo. L’insieme funziona, grazie a una regia capace di muoversi tra i cliché e a ottimi attori (il sensibile Mads Mikkelsen e l’ipnotica Eva Green su tutti), però è innegabile che le conseguenze finiscano per avere molto meno mordente delle premesse. Si può quindi dire che il rischio di essere confinato nel mero esercizio di stile è affrontato di petto, ma solo in parte superato.