- Greg McLean
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TRAMA
Il folle Mick Taylor si aggira ancora nell’entroterra australiano. Viaggiare nella zona è sempre meno tranquillo.
RECENSIONI
Wolf Creek era un serial killer movie debitore di molto cinema di genere, imperniato sul fenomeno delle persone scomparse nellinterno Australia, con due ragazze in gita catturate da uno psicopatico sopra le righe e mattatoriale. Giocava sulla materia dei corpi e del paesaggio, nella tradizione di certo cinema australiano (per esempio Peter Weir), e dopo una lunga fase preparatoria esplodeva in una violenza esplicita e insopportabile, rigorosamente basata su eventi reali. Niente di nuovo, sulla carta, ma ravvivato dalla solida conduzione di Greg McLean e soprattutto da un dialogo continuo tra il pazzo e loutback: Mick e la natura si parlavano tra le righe, luno era doppio e rovesciamento dellaltro, i due si sfruttavano a vicenda. Da un lato la pace apparente dellentroterra richiamava i turisti, dallaltro preparava la loro fine; da un lato il fondale brullo consentiva una facile individuazione delle vittime iscritte in esso, dallaltro permetteva al maniaco di mimetizzarsi nella sua aridità e quindi scomparire. Lassassino come parte del paesaggio.
Wolf Creek 2 conferma le caratteristiche del primo, variando però la struttura in modo significativo. Non c’è un folle da scoprire, stavolta, Mick/John Jarratt è in scena dall’inizio e ne conosciamo la natura. La ribadisce il teaser con l’omicidio dei poliziotti, che introduce subito una diversa gradazione rispetto al capostipite: è cresciuto il grado di ironia. La costruzione di una sensazione viene sostituita dall’irruzione dello splatter che aumenta lo scetticismo verso il racconto, culminando nella demitizzazione del simbolo nazionale con la ripresa che distrugge l’icona-canguro, proprio graficamente, con gli animali investiti dal tir sulle note di The Lion Sleeps Tonight. Risata sfacciata, auto-parodia della propria (presunta) serietà horror: il quiz di storia “mozza-dito”è ulteriore conferma di un secondo grado satirico contro la solennità del genere, che non trova spazio perché qui si uccide ridendo.
Per animare la meccanica degli eventi poi il regista sviluppa un dispositivo alla Psycho. A metà dell’intreccio cambia la vittima, ma non solo: la ragazza superstite, prima di venire eliminata, attraverso una ripresa di raccordo (il più classico degli autostop) “fa contatto” con il giovane successivo e gli passa il testimone, come in un contagio, ponendolo automaticamente sotto tiro del mostro. Con ironia (ancora) è la cinepresa-mirino a scegliere il bersaglio: quando l’inquadratura si sposta da una figura all’altra cambia anche la mira, slitta su un altro personaggio. La vittima può mutare, il killer è il centro di tutto.
Completano il piatto alcuni ritorni, a partire dallomonimo cratere meteoritico che fa di Wolf Creek un luogo spettrale e forse deformato dalla sua influenza aliena. Jarratt è ancora master assoluto della situazione, ripropone il concentrato di vizi (è ultranazionalista, maschilista, omofobo eccetera), e destabilizza la posizione dello spettatore con la sua simpatia: in fondo Mick ottiene un appoggio, si propende pericolosamente per la mattanza. Topos a profusione, citazioni ai classiconi (Duel, Le Iene, Non aprite quella porta), finale quasi fotocopia con sopravvissuto inattendibile, porte aperte a Wolf Creek 3.
