TRAMA
T.S. Spivet vive in un ranch in Montana con la sua famiglia ed è un bambino prodigio con una passione per la cartografia e le invenzioni.
RECENSIONI
Jean-Pierre Jeunet racconta sempre la stessa storia e nello stesso modo: anche in The Young and Prodigious T.S. Spivet (che esce nelle nostre sale dopo due anni dalla sua realizzazione) ripropone il suo mondo che si muove tra realtà idealizzata, magica quotidianità, romanzo avventuroso, da una parte, e cosciente immersione in un costrutto narrativo dall’altra (l’incipit, con il libro pop-up che si spalanca e che ci conduce in un West americano fiabesco, vuole evidenziare da subito l’artificio). Anche stavolta il racconto è scandito da digressioni sui personaggi - tutti a turno approfonditi -, costellato da sottili deviazioni, da quadri che si scompongono e che si ricompattano, costanti divagazioni dal tracciato principale che si dipana nell’ambito di una spazialità definita, in un’epoca che, se intuiamo contemporanea, ha molti elementi che la riconducono ad altre, una trasversalità sancita, come sempre, dal maniacale, sopraffino lavoro sull’art direction (la fissa per gli oggetti, come in Wes Anderson).
Il regista, dai suoi primi lavori con Marc Caro (il capolavoro Delicatessen e l'ambizioso La città dei bambini perduti), fino all’exploit di Amélie ha imposto uno stile che se sul piano della scrittura affonda le sue radici nella letteratura transalpina (Queneau, Perec eccetera), dal punto di vista visivo è quello di un bricoleur che costruisce pezzo per pezzo il teatrino in cui far muovere le sue marionette. La sua è una visione fantastica e artigianale che ha fatto scuola (il videoclip francese, che è tra i migliori al mondo, gli deve più di qualcosa) e che ha avuto anche inaspettati omaggi (il Benjamin Button di Fincher, come già sottolineato all’epoca, trasuda Jeunet) e che si esalta nella creazione di un universo riconoscibile che si perlustra da molteplici prospettive, in cui il tempo va avanti e indietro, il dettaglio minimo diventa macroscopico e la storia procede sia in avanti che lateralmente.
Il piccolo T.S. è un genietto che intraprende un viaggio per ritirare un premio scientifico, esperienza iniziatica che gli servirà soprattutto per elaborare il senso di colpa legato all’accidentale morte del fratellino: se la sua invenzione è un macchinario a moto perpetuo, la sua vita interiore si è invece interrotta il giorno in cui, giocando con una pistola nel fienile, ha posto fine alla vita del suo gemello. A partire da quella tragedia, cui i genitori non faranno mai più cenno e che diventa un baratro intimo nel quale il bimbo sente di precipitare, T.S. vive in una dimensione disperatamente solitaria, una bolla che lo isola dalla vita familiare.
Se T.S. Spivet è un lavoro anomalo (il paesaggio rurale, decisamente distante da quello urbanistico in cui Jeunet si esibiva da quel magistrale funambolo della macchina da presa quale è) e meno riuscito del precedente Micmacs à tire-larigot (a sua volta inferiore a Una lunga domenica di passioni, a sua volta un paio di tacche sotto Amélie, che è ancora la sua opera perfetta - ma non va dimenticata la felice esperienza della commissione di Alien Resurrection -) e che, denunciando inavvertitamente la sua derivazione letteraria, fa intuire spesso di essere una traccia inadeguata di un mondo narrativo in parte sommerso e molto più complesso, è anche la nuova sontuosa tappa di un percorso sì nostalgico (l’infanzia è il paradiso perduto), ma votato alla rappresentazione stilizzata e glaciale del dramma dei personaggi.
La mancanza di empatia con la sostanza del racconto (che, non a caso, parla di un rimosso emozionale) è infatti uno dei tratti più interessanti del cinema di un autore che è solito, all’improvviso, offrire uno squarcio struggente sul dramma che si va consumando. Così Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, confinando le vicende nel rassicurante catalogo di situazioni e nella disamina certosina degli elementi di una storia evocata più nella sua struttura che nella sua sostanza narrativa, sembra puntare la sua attenzione esclusivamente sul movimento di macchina, sulla messa in scena, su un’inventiva visiva tanto massiccia quanto controllata, per poi improvvisamente rinvenire un’anima e un respiro di vita nelle vicende rappresentate: l’emozione è quella seppellita tra le pagine del diario della madre del protagonista.
Così come la lettura del dolore materno - celato agli sguardi, consegnato alle pudiche pagine del manoscritto - è un atto scorretto di T.S. che però lo riconcilia con la famiglia, allo stesso modo la suprema trasgressione, in Jeunet, è mettere a nudo il cuore, mostrare che, sotto il complesso impianto sul quale edifica il suo cinema e le sue storie, esso esiste. E batte.
