TRAMA
1348. A Firenze infuria la peste. Un gruppo composto da sette fanciulle e tre giovani uomini decide di lasciare la città. Per quindici giorni vivranno in una villa in campagna, poi torneranno a casa.
RECENSIONI
La 'maraviglia' di Boccaccio è confinata nel titolo: non c'è, non può esserci alcunché di meraviglioso in una città in agonia, in cui il bacio diffonde la morte e ne sancisce il trionfo. Nel venir meno di qualunque certezza (l'istituzione della famiglia, una Chiesa ridotta a trampolino per suicidi e oscura reliquia), l'unica soluzione possibile sembra essere la fuga, l'evasione onirica: ma nell'idillio campestre la malinconia, la solitudine, i desideri inespressi/repressi, la frustrazione continuano, morbo implacabile, a tormentare l'esistenza dei giovani (auto)esiliati. E allora non resta che fare ritorno al punto di partenza, sotto una pioggia che potrà sancire un nuovo inizio, ma che, per il momento, suggella un film fosco, disilluso, plumbeo, ma non per questo arcigno o pedante. I Taviani colgono, di Boccaccio, il lato più nero e, al tempo stesso, più cinematografico: il tema dell'illusione ottica, della falsa prospettiva, della (dis)simulazione più o meno involontaria è quello che accomuna le cinque novelle selezionate, novelle che sono un quadro destinato a mettere in risalto la propria cornice. Si ingannano i servitori di Catalina, che la credono morta (appestata: un dettaglio assente nel testo, in cui la donna è colta da un generico 'fiero accidente' che si manifesta, per giunta, durante la gravidanza), e assai più s'inganna il marito, che esige la restituzione di quello che non può più appartenergli (l'irruzione del reale nel mondo dell'ideale - coniugale, in questo caso - vieta il dispiegarsi della 'liberalità' di Gentile, fulcro della novella). Prende abbaglio Calandrino, maldestro pittore che, preda di una ridicola mania di onnipotenza, si ritrova a un passo dalla tomba (lo salveranno gli amici, nonché le proteste degli altri novellatori). Il principe Tancredi s'illude di controllare l'esistenza della figlia e quella del suo favorito Guiscardo: il duplice amore paterno assume i contorni dell'ossessione incestuosa, finendo per provocare una tragedia che appare, però, priva dei dettagli macabri e grandiosi di cui la fonte abbonda. Un errore ottico (favorito dal buio non meno che dalla fretta) scagiona e assolve la peccatrice Isabetta non meno che la sua umanissima badessa, mentre la vergogna del proprio stato induce Federigo degli Alberighi a privarsi dell'unica gioia rimastagli, tanto che il matrimonio finale con Giovanna è più l'unione di due solitudini complementari, che non il felice connubio di aristocratica prodigalità e oculata amministrazione 'borghese', celebrato nell'apoteosi del racconto.
Alla ricerca di un'impossibile 'normalità' alternativa all'orrore del quotidiano, ingenui e trasognati ma anche insospettatamente concreti e pratici (la scena della preparazione del pane), i giovani fiorentini ricordano i pastori e le pastorelle che popolano Gli amori di Astrea e Céladon, altra opera (in ogni senso) estrema che un grande regista ha dedicato a un capolavoro della letteratura europea. Come in quella, anche in questa Arcadia in Arno la morte e il suo contraltare benigno, il sonno, la fanno da padroni: all'uomo non resta che prenderne atto, abbracciando il proprio destino, amando, soffrendo e ridendo finché è possibile. L'unica età dell'oro possibile è la notte fresca, umida, densa di speranze e minacce, in cui il mistero del racconto, improvvisamente, si interrompe.
