Drammatico

MOMMY

Titolo OriginaleMommy
NazioneCanada
Anno Produzione2014
Durata139'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Una madre vedova è costretta a riprendere la custodia del figlio, un quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione, dopo l’ennesimo episodio violento di cui si è reso protagonista nel’istituto in cui è ricoverato. La donna trova nuova speranza quando una vicina si inserisce nella sua famiglia.

RECENSIONI

A proposito del penultimo film di Xavier Dolan, Tom à la ferme, in concorso a Venezia 2013, scrivevo:
«(Dolan) non sublima o volatilizza i riferimenti, ma con la voracità tipica del giovane che è, li mastica velocemente e li risputa quasi intatti sullo schermo. È forse questo che mi entusiasma maggiormente del lavoro del canadese: poter vedere all'opera un cineasta che gira con l'ingenuità, l'entusiasmo, la mancanza di rigore, la ruspanteria tipica della sua età. Non ho dubbi che col tempo Dolan troverà una misura, riuscirà a dosare magistralmente gli elementi, a girare un'opera equilibrata e perfetta, ma adesso e solo adesso il suo cinema si mostra sinceramente tellurico e irruente, naif come quello di nessun altro. Solo adesso sfodera il furore autentico di chi non si preoccupa delle sfumature e del calcolo delle atmosfere, solo ora riluce di tutto bianco e si ottenebra di tutto nero».
Mommy, dopo quel lavoro - che è stato il primo adattamento del regista, applicazione (ancora sfrenata) di stile -, è il tentativo (riuscito: premi e botteghini parlano chiaro) di girare un film popolare che preservi le forme tipiche del cineasta, da un lato, e le addomestichi, dall'altro. Dolan continua a ingurgitare di tutto (anche platealmente) e a farne suo cinema, prosegue nel porre se stesso al centro della scena, ma stavolta all'interno di un impianto molto più ragionato, a cui non si concedono sbavature, in cui l'ego si smussa in un corpo altro (quello di Antoine-Olivier Pilon), e in una struttura forte che tutto deve tenere, un'impalcatura fondata soprattutto su situazioni, personaggi e storia.

Con Mommy Xavier Dolan non smette di cambiare direzione: questo film porta il regista fuori dall'ormai rassicurante sfera del cinema autoriale, quello di un enfant prodige coccolato dalla critica (si dia un occhio ai Cahiers), per consegnarlo a un terreno nuovo e molto insidioso, quello del mainstream chic che non rinuncia alla griffe.
Ecco che Mommy segna allora l'apoteosi pubblica di un regista che neanche ventenne presentava in quello stesso festival che oggi lo consacra il suo folgorante debutto J'ai tué ma mère. E così, con la coscienza propria di un'operazione, come nel film del suo esordio, riporta in scena la mère, ma menando il discorso su un terreno apparentemente meno ombelicale e più universale, in cui si rimette in gioco metaforicamente (la legge, frutto della fantasia dell'autore, che funge da presupposto alla storia e a cui fa riferimento la didascalia iniziale) il tema del figlio come ostaggio eterno della propria genitrice: perché la mommy di Dolan è un paradigmatico mostro amoroso alla maniera delle madri del cinema familiare americano di questi anni, da Correndo con le forbici in mano a Igby Goes Down, da Il matrimonio di mia sorella fino al recente I segreti di Osage County, una virago con le sue ragioni e i suoi torti, i suoi slanci e i suoi ripensamenti, le sue fissazioni, le sue manie persecutorie (auto e non): un personaggio/ specchio per le allodole in cui concentrare discorsi autoriali (la famigerata poetica), ma anche strategie drammaturgiche; così il film si afferma come un apologo in cui i personaggi narrati sono anche creazioni palesi, leggibili maschere simboliche e per questo ipercaratterizzate: una donna strabordante: la mommy del titolo, come indica la didascalia-ciondolo che le penzola al collo, madonna (l'attaccamento per il figlio) e puttana (è pronta, di fatto, a prostituirsi per ottenere aiuto nella vertenza legale); un ragazzo costantemente sopra le righe, diavolo dalla faccia d'angelo; un'altra (possibile) mamma, tradizionalmente materna. Se l'esasperazione dei caratteri sottolinea le storture relazionali, il dramma della follia che si mette in scena non è altro che la rappresentazione dell'ancestrale rapporto genitore-figlio in una chiave vendibilmente tragica. E chi conosce Dolan (i cultori dell'autore che vogliono rinvenire i tratti distintivi del suo discorso in ogni film) lo troverà tra le pieghe di quel registro esacerbato: nell'iconicità gay di Diane (perché l'omosessualità - e la sessualità in generale - non è più un tema del film, ma, normalizzandosi, ne diviene motivo sottile); nel deficit di attenzione oppositivo provocatorio di Steve (che non è altro se non la conduzione alle estreme conseguenze, il definitivo inasprimento in chiave patologica - e quindi eminentemente narrativo-popolare -, del tormento esistenziale dei protagonisti dei film precedenti); nel dolore muto (e inspiegato) e nel suo farsi riferimento forte di Kyla (in cui vengono chiamati ad appello tutti i caratteri-rifugio che hanno costellato le opere del regista, sintetizzandosi in una tipologia tranquillizzante).

Dolan insomma prende il suo cinema, lo rivolta nel pop, e concepisce a tavolino un'opera commovente che riporti, in chiave più commerciale, una marca stilistica e un mondo: i suoi. Perché profondamente sua rimane questa storia, il modo in cui viene condotta, gli episodi che la costellano, le dinamiche che si scelgono per raccontarla, i personaggi (compresi quelli assenti: il padre, come al solito), ma costringendoli in una griglia più classica,  sulla quale, neutralizzata la spudorata autobiografia, si vengono a innestare certe varianti anticonvenzionali, quelle pennellate d'auteur che rendano il lavoro inconfondibile senza arrivare alla consueta, estrema estetizzazione.
Di questa meditata messa in forma il film ha tutti i pregi e tutti i difetti: più quadrato dei suoi precedenti, più trattenuto stilisticamente, ma anche più prevedibile, con i suoi momenti di commozione melodrammatica calcolati al millimetro - e, quindi, paradossalmente, poco toccanti - e i suoi scorci di commedia.  Xavier Dolan in Mommy, come in J'ai tué ma mère, sdoppia l'archetipo materno, ponendo accanto alla madre "reale" (Diane, Anne Dorval che era la madre anche nel primo film) una madre "ideale" (Kyla, Suzanne Clément, anch'ella nel ruolo omologo di genitrice d'elezione in J'ai tué ma mère): di fronte al caos familiare la seconda funge da elemento equilibratore e rassicurante, a bilanciare il personaggio scomposto e imprevedibile della mère che, accoppiata a un figlio incontrollabile, rischia di far deragliare anche il film. Kyla conduce il lavoro su un piano di disfunzionalità gestibile e di storia (criptata, ma innegabile) di amour fou, rendendo ricevibile al grande pubblico un racconto altrimenti debordante, come lo erano quelli dell'esordio o Laurence Anyways (il suo capolavoro).

Posto che l'aspetto narrativo è il campo sul quale si gioca la partita con il grosso pubblico, le trasgressioni alla norma si consumano, dunque, su terreni diversi.
Nella ratio dello schermo: il formato scelto viene usato in una chiave fortemente espressiva; Dolan costringe i protagonisti nel quadrato-prigione fino a quando non percepiscono una possibile via di fuga (il regista lo fa sottolineare al protagonista, lo enuncia in maniera chiara con quell'apertura di braccia - eccolo il Dolan spudorato che amo, quello che fa una cosa semplicissima quanto emozionante, che nessun regista serio oserebbe per paura di apparire letterale -), per incapsularli nuovamente quando le vicende si incupiscono e la speranza si fa flebile. Anche in Tom à la ferme, nella scena dell'inseguimento del bosco, lo schermo si restringeva per tradurre in termini visivi il senso di soffocamento, la pesante pressione degli eventi su Tom; lo stesso avveniva nel video di College Boy, in cui il formato e il lugubre bianco e nero (che sembra citare il free cinema inglese) enfatizzava il senso di angosciosa oppressione del racconto.
In certe intuizioni brucianti: l'incidente subìto da Diane all'inizio e visto con occhi altri o quel trip, semplicemente magnifico (vertice del film), in cui la madre immagina un futuro per Steve, una vita normale, il matrimonio, un figlio: in quel frangente i temi di Mommy si liberano dell'apparato che li disciplina e si muovono liberamente, senza costrizioni, sul piano visivo come su quello drammatico.
Insomma Tom à la ferme rischia di essere davvero l'ultimo film "impetuoso" dell'ormai lucido Dolan (l'annuncio di una produzione americana con Susan Sarandon e Kathy Bates ce lo conferma) ché Mommy (buona&cattiva notizia) porta già il suo discorso su un piano più calcolato e maturo. Avremo, con tutta probabilità, nuovi ottimi film dal canadese che pian piano metterà tutti d'accordo e quelli che oggi lo detestano («Troppo talento e troppo presto, perdio») diluiranno il livore nell'infallibile tattica del far finta di niente, glissando sui lavori, meravigliosamente imperfetti ed eccessivi, e per questo irripetibili, degli esordi.

Ci si era illusi, dopo l'intelligentemente onirico, lodevolmente sommesso Tom à la ferme, che Xavier Dolan si fosse deciso ad abbandonare il suo stile ruffiancello e sopra le righe, suggestivo ma dal fiato corto (per non dire pretenzioso).
E invece no. Non contento di riproporre musica "piaciona" a palla, immagini al rallentatore, sgargianti accensioni cromatiche e quant'altro, il giovane regista canadese impernia il suo Mommy su una trovata di quelle facili facili: il formato dello schermo (un inusuale 4:5) si restringe fino a diventare una striscia verticale. Non che la cosa giunga completamente inaspettata: Dolan è uso da sempre piazzare/piantare i personaggi (che non di rado, peraltro, guardano in macchina) al centro dell'inquadratura, rinunciando di fatto alla costruzione di uno spazio propriamente cinematografico per accontentarsi invece di uno solamente "centripeto".
Dietro a questo, c'è una ragione precisa: fondamentalmente, è l'immagine allo specchio che gli interessa, e solo quella. Al di là dei quattro bordi dello specchio (o dello schermo "ristretto", che lo mima), è come se il mondo non ci fosse. E Mommy, appunto, racconta due personaggi imprigionati in un narcisismo asfittico e autoafferente privo di scampo (e che si imprigionano gioiosamente l'un l'altra in esso): l'adolescente turbolento Steve (da prendere a schiaffi e/o da mandare in miniera) e la squinternatissima madre (vedova) Diane. Principalmente, il film segue i due sbrodolare dialoghi e monologhi in cui entrambi si crogiolano della e nella vistosa assenza di qualunque principio di autorità paterna. Quest'ultimo, semmai, viene assunto da una donna, la vicina di casa Kyla, insegnante che si avvicina ai due fino a formare con loro un inusuale triangolo.

Tra continui primi piani, strizzate d'occhio, parossismi melodrammatici, rovesciamenti drammatici di plateale pretestuosità e gratuità, Mommy si immerge nel cul-de-sac emotivo dei suoi personaggi variamente borderline, enfatizzando la loro irrimediabile lontananza da qualsiasi integrazione sociale minimamente regolare. Un paio di volte, la possibilità che Steve raggiunga finalmente questa integrazione balena miracolosamente, e di conseguenza il formato dell'immagine si riapre e riallarga. Ma è un sollievo solo momentaneo: l'incontro col mondo è sempre e comunque sterilmente ostile, e dunque subito dopo la prospettiva visuale si restringe di nuovo e ritorna ombelicale, su misura del bozzolo in cui i personaggi patologicamente si rinchiudono.
Non c'è dubbio: la disfunzionalità della situazione e dei personaggi viene restituita da Dolan con mezzi espressivi sicuramente, sottilmente e clinicamente adeguati. Può lasciare perplessi (e sicuramente lascia parecchio perplesso il sottoscritto) lo sbracato compiacimento con cui lo fa, così come l'insistenza con cui l'enfant prodige del Quebec vuole a tutti i costi farci amare, facendoci ridere e soffrire con loro, personaggi che, francamente, non se lo meritano.