TRAMA
All’attrice Maria Enders viene offerto di recitare in un revival della commedia che l’aveva resa famosa vent’anni prima. A quei tempi interpretava il ruolo di Sigrid, un’affascinante ragazza che spinge al suicidio il suo capo, Helena. Ma oggi le viene chiesto di cimentarsi proprio nel ruolo di quest’ultima.
RECENSIONI
Mai come in questo film Assayas - che, da critico dei Cahiers quale è stato, ha sempre nutrito i suoi lavori di riferimenti cinematografici riconoscibili - prova ad edificare l'opera su una serie di richiami alla tradizione, puntualmente riconsiderati e ricontestualizzati, e a costringere situazioni e personaggi in una complessa rete di ribaltamenti, in un labirinto di trasposizioni. Il gioco drammaturgico è dunque programmaticamente abissale: Il film Maloya Snake, che è al centro della narrazione, riguarda il rapporto tra una donna matura (Helena) e una giovane, Sigrid, che la soggioga. Maria (Juliette Binoche) deve il suo successo all'interpretazione che a soli diciotto anni aveva dato della seconda e ora, a molti anni di distanza, è chiamata a intepretare la prima, a teatro: è la resa dei conti, il prezzo da pagare al proprio successo, contrappasso che si concreta nella condivisione del palcoscenico con una nuova star in ascesa, rivivendo il cruciale dramma dalla prospettiva più scomoda e dolorosa, quella della tormentata, e infine suicida, Helena. Il complesso rapporto tra le due donne, nella finzione dell'opera, sembra replicarsi nella relazione tra Maria e la giovane assistente Valentine, rispecchiamento che sfiora lo sconfinamento dimensionale quando la diva prova la parte con l'aiuto della ragazza proprio nei luoghi a cui il dramma fa riferimento: le due si confrontano e si immedesimano, le prove della pièce confondono recita e realtà, i loro dialoghi suonano ambivalenti.
La costruzione si concede anche degli attorcigliamenti: se l'attrice che all'epoca aveva interpretato Helena morì poco dopo in un incidente stradale, lo stesso destino sembra adombrarsi per Valentine (Maria con apprensione le raccomanda di stare attenta sulla strada di montagna): la circostanza si risolve in un passaggio visionario che sembra voler incanalare il film in un possibile nastro di Moebius, smentito dalla mancata rispondenza (Valentine non ha alcun incidente, si ferma ed esce dalla macchina).
Ma il gioco di riflessi non si ferma qui, sconfina nell'extratestuale: Maria è, infatti, come Juliette Binoche, un'attrice europea che ha avuto successo ad Hollywood, divisa tra teatro, film d'autore e blockbuster; come lei è un'icona celebrata della bellezza (lo shooting fotografico per Chanel che richiama la campagna Lancôme di cui Binoche è stata testimonial). Kristen Stewart (meravigliosa), che interpreta Valentine, è anche, in tutta evidenza, la nota interprete di Twilight riflessa nel personaggio della reginetta del mainstream Jo-Ann (qui impersonata dalla Chloë Grace Moretz di Kickass), chiamata a ricoprire il ruolo della giovane manipolatrice, che fu di Maria. Jo-Ann come la Stewart è una star contemporanea, inseguita nella realtà dalla stampa e sulla rete da una massa curiosa, sezionata via Google, le cui gesta pubbliche sono immortalate nei filmati di YouTube.
Maria, attrice in declino, diva di un'era al tramonto, è in conflitto con il tempo presente nel quale stenta a collocarsi: ha dunque con l'attualità un rapporto di frustrato e ipocrita snobismo. In questo senso la conversazione tra Maria e Valentine, all'uscita del cinema, in cui le due donne discutono sulla qualità dell'interpretazione di Jo-Ann, e sulla rilevanza del cinema commerciale, è un pezzo da manuale per come riesce a dialogare con tutti i livelli e i temi del film, mettendo a confronto non solo i personaggi, separati dal gap generazionale, ma anche le attrici Binoche e Stewart come simboli viventi di un certo tipo di proposta cinematografica (la scena del bagno nel lago ripropone latamente la contrapposizione: l'attrice europea disposta alla nudità frontale, quella americana in mutande e reggiseno). L'inevitabile incontro con la giovane diva emergente costringe Maria a confrontarsi con il presente, ad ammettere a se stessa di non essere più la giovane Sigrid del suo esordio, di essere oramai percepita come la donna matura che è diventata, l'interprete ideale dell'altra protagonista, Helena: la morbosa ricerca del materiale che riguarda la nuova star (che un po' un riguarda quel sé giovane che non c'è più) è da un lato la preparazione a una tacita competizione che la innervosisce, dall'altro la scoperta di un mondo, quello online, fino a quel momento posto sdegnosamente a distanza e che ora, con la pressione della concorrenza, diventa urgente conoscere e interrogare. Le montagne di (Sils) Maria, immobili e indifferenti al trascorrere del tempo, sono dunque attraversate da un serpente di nuvole inquiete: una tempesta è in arrivo, il perturbante striscia in un paesaggio pacato e immobile. È il momento topico del film, in cui la vicenda e la sua rappresentazione simbolica combaciano: il manifestarsi del fenomeno naturale coincide con la sparizione perentoria del personaggio di Valentine, con l'imporsi definitivo della deuteragonista Jo-Ann.
Come tutti quei cineasti che innervano nel tessuto del loro film luoghi, situazioni ed elementi del cinema classico e non (da DePalma, ad Almodovar fino ad Ozon) allo stesso modo Assayas usa quegli elementi come una grammatica. Il rapporto tra l’attrice e l’assistente è un topos della Hollywood classica; il palese riferimento è al rapporto tra la diva Margo (Bette Davis) e la sua assistente Eva (Anne Baxter) in Eva contro Eva, anche se questa è una delle tante false piste del film, suggerendo all’intuito cinefilo uno sviluppo che nei fatti viene disatteso: qui l’assistente non vuole prendere il posto della diva, ma innesca con essa un rapporto ambiguo e simbiotico (nell’incipit Valentine appare come il prolungamento tecnologico di Maria: i due smartphone tra i quali si divide per gestire non solo le situazioni professionali, ma anche quelle personali dell’attrice - il divorzio -), di una passione sotterranea e taciuta (Maria che chiede a Valentine del ragazzo che ha incontrato, che si confida con lei, che la prega di non lasciarla) che conduce Assayas, e non è certo la prima volta, verso Bergman. Così l’isolamento nella casa con le due donne a confronto è ovvio riferimento a Persona (film che anche strutturalmente è un richiamo costante): Sils Maria come Fårö, Maria attrice di teatro come la Elisabeth Vogler di Liv Ullmann, Valentine assistente/infermiera/ confidente come Alma/Bibi Andersson. Altre tracce bergmaniane sparse: la consegna del premio (Il posto delle fragole), l’incipit in treno con le due donne (Il silenzio), la recita del copione (Dopo la prova).
Il gioco dei rimandi ci sollezzerebbe a lungo (da Antonioni al Fassbinder più teatrale, fino al finale che richiama Rendez-vous di Techiné, scritto con lo stesso Assayas, e con la Binoche nella parte di una giovane attrice al debutto sul palco - un prequel? -), come ci intrigherebbe una riflessione su Sils Maria quale film sintomatico (Maps to the stars, anch'esso in concorso a Cannes, parla di un''altra diva in declino e di una sua assistente, della giovinezza come valore, di tecnologia e cultura virale), ma quello che conta è come Assayas riesca a passare da un livello all'altro (quello teorico e quello di una narrazione stratificata in cui c'è il progetto di uno spettacolo, c'è la recitazione, ci sono prove, il dietro le quinte e il contorno mediatico - ancora Eva contro Eva -), da un tempo all'altro, da un'ambientazione all'altra, dalla concentrazione del luogo montano alla globalità del jet set, con grande scioltezza, giocando sull'ambiguità fomentata dalla coesistenza di così tanti motivi, non paralizzandoli in un freddo film-trattato, ma orchestrandoli funzionalmente per l'obiettivo ultimo della drammaturgia, mantenendoli dunque attivi su entrambi i fronti. Così se nella scena pubblica Maria ha un'immagine di chiara marca divistica, con il suo isolamento a Sils Maria la sua immagine si trasforma; isolata, lontana dal mondo e dallo star system, il suo look muta, diventa intensa maschera bergmaniana per mascolinizzarsi, alla fine, sulle tavole del palcoscenico. Così il convivere di tante dimensioni dell'immagine (il 3D al cinema, YouTube al computer, un vecchio cortometraggio documentaristico in sala proiezione - Cloud Phenomena of Maloja di Arnold Fanck, 1924 -) serve sia al procedimento narrativo sia a quello concettuale, e lo stesso dicasi per il discorso sulla comunicazione - continuo, esasperato - che da un lato riporta il regista su un campo ripetutamente praticato - dando al film quel forte riflesso sull'attualità che non manca mai nei suoi lavori -, dall'altro, in controluce, riprende il leitmotiv di Persona: l'incapacità di comunicazione di Maria con l'esterno viene ovviata da Valentine (suo tramite virtuale, come si è detto) che, nell'espletare questo compito, emerge con il suo carattere, le sue storie, la sua personalità, come succede ad Alma nel film di Bergman, a fronte dell'incomunicabilità dell'afasica Elisabeth.
L'arte e la vita, la realtà e la finzione, i ruoli reversibili, i riflessi o gli slittamenti si confondono in un film visivamente austero (la fotografia di Yorick Le Saux echeggia la solennità dei paesaggi romantici di Caspar David Friedrich), prismatico come lo era Irma Vep (che trattava del rapporto tra la costumista e Maggie Cheung, diva orientale nella parte di se stessa, durante il tournage di un remake di Les Vampires di Louis Feuillade, diretto da una vecchia gloria del cinema francese): Sils Maria, come quello, è un film fortemente teorico, a rischio di precipizio nell'autoindulgenza, a volte irrigidito nel suo ossequio ai codici, a volte comodo ostaggio delle sue iconografie. Dall'altra parte Assayas, proprio attraverso la chiarezza cristallina dei riferimenti, senza tentare mai di sublimare i citazionismi, trova nell'artefatta e strapensata costruzione (il film palesa la sua struttura: procede per lunghe sequenze con dissolvenze, sottolinea i cambi temporali, ricorre alla didascalia parlata - Juliette Binoche che legge sul copione: Fine secondo atto, segue dissolvenza in nero - e scritta - Epilogo -) una strada maestra di sincerità che conduce alla consueta lucida riflessione del regista sui meccanismi della rappresentazione e alla resa efficace dell'essenza umana della storia rappresentata.
Il futuro non è più quello di una volta. Olivier Assayas ci aveva già provato dodici anni fa a ritrarre il nostro presente “postmoderno” in relazione a una modernità ormai tramontata. Il risultato, Demonlover, era assai problematico ma molto affascinante; tra le varie magagne spiccava senz'altro la patina di “futuribilità” che il regista francese aveva un po' appiccicato al suo film con lo scotch.
Oggi che è sotto gli occhi di tutti che il futuro assomiglia molto di più a una palude che ai luccichii hi-tech immaginati da un passato che sembra già lontanissimo,Sils-Maria rigioca in maniera molto più convincente la carta del ritratto allegorico del presente, attraverso la riscrittura aggiornata di una pietra miliare del tardo-moderno: Persona di Ingmar Bergman.
Pieno di echi che rimandano direttamente al Maestro svedese (con il quale, peraltro, Assayas realizzò anni fa un libro-intervista), questo lungometraggio segue Maria, attrice chiamata a rendere omaggio a un noto regista appena suicidatosi. A quest'ultimo, Maria deve la propria carriera: la fece debuttare sullo schermo diciottenne nel ruolo di Sigrid, amante di una matura donna di successo (Helena) che viene gradualmente spinta alla follia e alla rovina dalla giovane, arrivista “gatta morta”. Un altro regista la contatta per riportare in scena la stessa storia: l'età di Maria, però, la predestina ora al ruolo di Helena (ruolo che già spinse al suicidio un'altra attrice, incapace di distanziarsi a sufficienza dalla parte che doveva interpretare). Per preparare il proprio ruolo, Maria si ritira dunque nella casa sulle Alpi elvetiche che fu del suo deceduto mentore, insieme a una giovane assistente americana. Le due parrebbero riportare in vita il gioco al massacro psicologico tra Sigrid e Helena...
… ma non è così. Non è più tempo di Persona – e non solo perché imperversano iPad, telefonini e internet. Non c'è più fusione conflittuale tra donna giovane e donna matura: Maria è (e/o diventa) entrambe, e l'assistente non fa nulla più che il suo lavoro, che è quello di scomparire per agevolare questa coincidenza nella sola Maria (servita in questo da una Juliette Binoche raramente così brava: controllatissima ma pronta a esplodere in emorragie fugaci di infantilismo). Nell'epoca che la vulgata che ad Assayas per qualche ragione continua a piacere così tanto chiama postmoderna, non c'è più la conflittualità tra diverse faglie temporali, ma giusto la loro coesistenza pacificata. Sul palco dove nel finale si terrà la pièce, le età coesistono orizzontalmente.
Non c'è conflitto dunque, bensì, letteralmente, ordinaria amministrazione. E la regia di Assayas si inventa un registro perfettamente adatto a questa nuova esigenza: rinuncia alla sua proverbiale frenesia cinetica, appiana tutto e lavora solo di rifiniture. Al posto del conflitto, si ha giusto un po' di movimento che si lascia passare a lato dell'apparentemente immobile coesistere geologico di tempi diversi: come nuvole di passaggio in mezzo alle montagne.