Drammatico

IL REGNO D’INVERNO

Titolo OriginaleKis uykusu
NazioneTurchia, Francia, Germania
Anno Produzione2014
Durata196'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La pigra routine dello stimato notabile di un borgo della Cappadocia viene turbata da un incidente che sembra senza importanza; ma per il suo regno sarà l’inizio della fine. Per lui, forse, l’inizio di un nuovo inizio.

RECENSIONI

Chi è veramente Aydin? Un intellettuale di ampie vedute o un borghese che si crògiola in oziose dispute, dispensando massime filosofiche e moralistico sussiego dalle pagine di una marginale pubblicazione periodica? Un possidente magnanimo, tollerante delle inadempienze dei suoi debitori? O non è forse un ex attore che continua la sua privata recita, posando a gran signore e dimentico di spiacevoli incombenze sol perché un piccolo esercito di servi rastrella per lui risarcimenti e canoni, se del caso pignorando i beni dagli affituttari e minacciandoli di sfratto? Un generoso benfattore che finanzia la riparazione di scuole e opere di carità? O un narcisista che elargisce le proprie buone azioni con malcelata degnazione e segreto disprezzo della plebe volgare e non troppo deodorata? Un marito amorevole e comprensivo nei confronti dei velleitari soprassalti della giovane, inquieta moglie Nihal, o un dominatore che ne soffoca l'anelito d'indipendenza con la forza del denaro e con una vigilanza paternalistica tanto puntigliosa quanto cieca?
Che qualcosa non quadri, nella rappresentazione che Aydin offre di sé al mondo e a chi gli vive accanto, lo apprendiamo - nella sequenza che apre il film dopoun breve preludio - dallo sguardo torvo e dal gesto di impotente ribellione che gli rivolge un bambino. Lo sguardo del bambino segnerà altrettanti nodi cruciali del film, scrutando in silenzio e in silenzio giudicando il gioco delle apparenze che occulta un groviglio di conflitti, sociali e psicologici, irrisolti.
La città scavata nella pietra, la maestà sublime della natura, costituiscono uno scenario adeguato ad amplificare i riverberi d'un teatro della crudeltà di potenza inusitata, che convoglia alcuni fra i temi più alti della riflessione occidentale (si sono fatti i nomi, tutti a proposito, di Čechov, Dostojevski, Shakespeare, e altri se ne potrebbero aggiungere); esigente nei confronti del pubblico, non concede tregua - al di fuori di qualche pausa comica (le entrate del turista giapponese, la gag nella stazione ferroviaria) - alla sua concentrazione imponendogli una struttura narrativa composta di grandi blocchi di conversazione (a due, a tre, a quattro personaggi) impegnativi all'estremo, e come intermezzi monologhi di pari intensità.

Eppure, non un attimo di stanchezza in chi accetti le regole del gioco, affidandosi alla guida impervia di Ceylan. Osserviamo la concertazione di una delle scene. Si parte in sordina, il contesto è banalmente quotidiano (una colazione), il dialogo è occasionato da una delle tante inessenzialità che costellano le nostre giornate, inframmezzato dagli inciampi ugualmente insignificanti (una pietanza non scaldata a dovere, un oggetto mandato in frantumi) ai quali pure dedichiamo un'attenzione che solo a posteriori può rivelarsi spropositata. Attorno a un tavolo siedono il protagonista con la sorella Necla e Nihal, la cameriera è affaccendata dietro di loro; battuta dopo battuta, spontaneamente la conversazione prende una piega inattesa: l'opposizione al male, le forme che essa può assumere, la nostra corresponsabilità nella malvagità altrui (quindi del mondo). Con perfetta chiarezza, attraverso i punti di vista degli interlocutori - intrecciati nel dialogo con infallibile timing - emerge un conflitto di personalità, di visioni del reale, di concezioni della nostra responsabilità sociale. La tensione cresce lentamente, irresistibilmente, sembra di poterla vedere e toccare tra i protagonisti; un sogghigno sarcastico, un corpo che si piega in avanti, uno sguardo sospeso fra incredulità e rabbia, un sorriso come pietrificato' ogni gesto concorre a far convergere le linee di forza drammatiche nel momento narrativo. Il progresso dialettico è esso stesso alimento per il voltaggio della scena, mai giustapposta ma sempre unita alle altre da invisibili e tenaci legami.

Così, la prospettiva da cui osserviamo i personaggi, le loro relazioni e i loro caratteri, cambia di volta in volta, arricchendosi di interrogativi e dilemmi: se in precedenza Nihal era parsa ingiusta verso la generosità di Aydin, ora non siamo più sicuri che lei non avesse ragione oltre le sue stesse ragioni; le quali, peraltro, saranno messe in dubbio una prima volta quando riveleranno l'acidità repressa di una donna frustrata nella goffa inconcludenza con cui cerca di tacitare i sensi di colpa per un benessere che la separa dagli altri, e una seconda quando diverranno espressione del suo disperato dibattersi alla ricerca di un senso per la propria vita, di una fuga mentale se non fisica dalla mediocre apatia della deserta provincia (Istanbul è la mitica irraggiungibile mèta, come Mosca lo era nelle Tre Sorelle).
Sopraggiungono altri personaggi: l'imam del villaggio vuole che suo nipote si scusi con l'illustre ospite per avergli danneggiato l'auto. Le scuse prenderanno la forma di un atto di rispetto e sottomissione; il padrone di casa si schermisce, ma con discorsi vaghi e senza un rifiuto netto, l'imam insiste, il ragazzo - che ha già dovuto assistere all'umiliazione del padre Isamil - tace. La tensione è al suo massimo, lo spettatore trattiene il fiato come se da questo momento, da questi pochi secondi di incertezza sospesa, dipendesse la salvezza o la dannazione dell'umanità intera: davanti ai nostri occhi stanno il parlottìo servile dell'imam, l'egocentrico sussiego del protagonista, il silenzio ostile del bambino, l'imbarazzo  immobile delle due donne. Il massimo della potenza del linguaggio cinematografico ottenuto col minimo dispiego di mezzi, grazie alla perfezione strutturale di un'architettura tanto complessa nell'intrico degli elementi compositivi quanto profonda nell'analisi dei loro rapporti e limpida nella concezione.
Parola e immagine sono al servizio, in Ceylan, di un rigoroso impegno conoscitivo che non si limita al privato ma attinge a una visione dei rapporti fra le classi. Svelando la falsa coscienza delle posizioni morali di un ceto di possidenti, che comodamente criticano avidità e cattive maniere perché possono delegare ad altri di sporcarvisi le mani, mette a nudo i gangli di una società feroce, l'orizzonte spento di un sistema di rapporti in cui amore, rispettabilità, benevolenza sono i nomi che coprono la spietatezza delle dinamiche di potere, la contraffazione del giusto e dell'ingiusto, lo snaturamento dell'umano. In questa prigione di indicibile violenza, solo un gesto inaspettato può contraddirne la logica, forse spezzarne la spirale: il gesto compiuto dal reprobo Isamil in una fusione totale, bressoniana, tra forza drammatica e valore simbolico dell'immagine.

L'analisi che il film meriterebbe, sequenza per sequenza, dialogo per dialogo, immagine per immagine e nel loro insieme di sconvolgente bellezza e durezza, potrebbe continuare a lungo; eppure, mai come ora il recensore avverte l'incapacità delle spiegazioni a rendere comprensibile seppure in parte la grandezza della visione totale. Si può ancora invitare, almeno, a lasciarsi avvolgere da quest'opera ardentemente politica sul male nascosto nei dettagli, sul naufragio delle illusioni, sulla quotidiana inerzia delle nostre vite sciupate; sulla sfida etica sempre rinnovata, per cogliere la quale si deve esser disposti a pagare un prezzo molto alto; sul dramma che si compie tra la volontà di vivere di ciascuno di noi e la parte di morte che lo governa.