
TRAMA
Appena licenziata, l’operaia Sandra ha due giorni per convincere gli ex colleghi a rinunciare alla tredicesima, sola condizione per essere riassunta…
RECENSIONI
Dopo anni di realismo sociale quasi materialista, sporadicamente appesantito da riferimenti biblici, i fratelli Dardenne riprendono il discorso inaugurato qualche anno fa con Il ragazzo con la bicicletta. Come e ancor più del film precedente, Deux jours, une nuit è un caso paradigmatico e programmatico di realismo fiabesco didattico e assertivo, in cui un'attrice conosciuta, e più (ora: Marion Cotillard) o meno (prima: Cécile de France) "diva", interagisce con attori non professionisti, agendo e dicendo cose spesso inverosimili in un contesto verosimile. Pedinando la loro eroina, mantenendo sempre la "giusta" distanza, i Dardenne osano incastonare in un universo "fedele", che si vorrebbe più vero del vero, segmenti narrativi strategicamente improbabili, senza temere il ridicolo: rapporti causa-effetto troppo marcati, battute scientemente didascaliche, à la manière dell'ultimo Bresson. Tali frammenti anomali, che hanno infastidito molti, favoriscono l’apertura di squarci universalizzanti nell'angusto territorio del naturalismo "adesivo".
Ancor più che ne Il ragazzo con la bicicletta, un "caso" socialmente e storicamente inquadrato (il lavoro negli anni della crisi del capitalismo avanzato) diventa così la generica via crucis laica di una figura archetipica, quella del "marginale". Il marginale, la marginale, colei che ha tolto la maschera senza reprimere o occultare un male di vivere non più dissimulabile; colei che, in ragione di un'eccessiva sensibilità, ha deciso di non più trattenere le lacrime. E di esplodere. L'itinerario di Sandra, la sua "quête" quasi proppiana, ha un oggetto-valore da riconquistare che è incidentalmente il posto di lavoro e sicuramente l'appagamento di un desiderio ben più profondo e "estendibile": tornare alla vita, sopravvivere. Una missione moralmente difficile se non impossibile che gli autori, sfidando la logica del racconto (e del mercato), si arrogano il diritto di rendere magicamente possibile. Il miracolo, ancora una volta, si compie, nonostante una sconfitta che porta con sé una palingenesi umana. Oltre i limiti dello "specifico socioeconomico".

Pamphlet schematico: in apparenza, i fratelli belgi sono fedeli ad un cinema legato al proletariato, realistico, morale e ricco di sfumature di grigio nel dipingere la donna (quasi sempre) protagonista. Specchio della crisi economica, la loro opera fotografa una situazione paradossale dove, dai vertici aziendali, è delegata ai dipendenti la responsabilità di decidere quale testa, fra loro, dovrà cadere. Marion Cotillard, spogliata di qualsiasi orpello romantico o divistico (l’hanno conosciuta sul set di Un Sapore di Ruggine e Ossa, che hanno prodotto), indossa una figura che, come nelle opere migliori dei Dardenne, è colma di macchie fino alla repulsione (per l’arrendevolezza e l’essere problematica con chi la sostiene: amica e marito), mitigata dal modo in cui i registi sanno appuntare quanto possa essere sfinente, soprattutto per un essere così fragile, mendicare il posto di lavoro da soggetti che hanno già deciso del suo futuro e che, per assurdo, a volte reagiscono con violenza. A mancare è la tensione drammaturgica di La Promesse, simile nell’essere più votato alla denuncia che al dramma umano: lo stesso finale dove Sandra gioisce è incoerente con la figura tormentata restituita sin lì. Manca anche lo scavo dentro l’anima che possedeva il loro capolavoro, Rosetta. Di sicuro è lontano nello spazio il misticismo della sottrazione del meraviglioso Il Figlio. Nello sommarietà da Dieci Piccoli Indiani (hanno detto di aver pensato a La Parola ai Giurati) dove, per tutto il film, Sandra tenta di persuadere uno ad uno i colleghi, nulla progredisce o si illumina. Rispetto alle prove migliori dei Dardenne, mancano il rigore, il silenzio e le sfumature, soprattutto nel sottotesto, urlato con le canzoni (quando Sandra canta in automobile) e con un finale di “coerenza morale”, sulla solidarietà, più facile che complesso.
