Commedia, Recensione

THE BIG WEDDING

Titolo OriginaleThe Big Wedding
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Genere
Durata89'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

La tipica famiglia americana allargata, ricostituita e problematica affronta il grande evento di un matrimonio. Saranno guai.

RECENSIONI

Quello delle pellicole nuziali è un vero e proprio genere negli States, da non confondere con la recente costola dei film prenuziali, basati sugli addii al celibato/nubilato, più scapestrati, giovanilistici e meno focalizzati sulla famiglia. I film matrimoniali, invece, hanno come cardini essenziali le dinamiche famigliari e di coppia, generalmente con l'incontro-scontro tra genitori dello sposo e genitori della sposa (la saga Ti presento i miei docet; Il mio grosso grasso matrimonio greco). Solitamente non mancano bugie alla base dell'intreccio e/o grandi equivoci (Piume di struzzo, Mamma mia!). Gli esiti sono alterni e spaziano dal modestissimo al decisamente riuscito, quasi sempre però con buoni riscontri commerciali, che provano una spiccata passione del pubblico per i fiori d'arancio travagliati e le bagarre in famiglia. Rassicuranti, perché incompatibilità apparentemente gigantesche finiscono immancabilmente per risolversi nel reciproco affetto. E poi c'è l'effetto nozze: si sa che negli Usa si sposano solo i ricchi, infatti le cerimonie sono sfarzosissime ed eccessive, ulteriore richiamo per un target vasto.

The big wedding, nelle premesse e negli ingredienti, rispetta la tradizione, anzi procede per accumulo inserendo tutti gli elementi base in un solo film. Non c'è solo una famiglia ricostituita dopo un divorzio ed una bislacca coppia di consuoceri, ma anche una famiglia biologica che arriva da lontano. Non c'è solo l'incontro tra genitori eterogenei, ma anche l'incompatibilità religiosa. Non solo il cammino ad ostacoli dei fidanzati verso l'altare, ma anche le beghe sentimental-sessuali-procreatrici dei loro fratelli. E le unioni a rischio sono parecchie, sebbene per poche di esse la sceneggiatura preveda una valida ragione.
Justin Zackham, con un curriculum non esattamente irresistibile, prende in carico regia e scrittura della pellicola, con un risultato sconcertante soprattutto in considerazione del cast stratosferico schierato. Non che i nomi sulla locandina costituiscano ormai una garanzia, anzi, ma il sobbalzo è inevitabile. Quella scena iniziale, con De Niro e la Sarandon sul tavolo della cucina e Diane Keaton terzo incomodo grida subito vendetta, se non altro per la sua gratuità e per la totale assenza di comicità. Verrebbe da gridare all'oltraggio nei confronti di tre carriere se non fosse che i tre attori hanno scelto liberamente di infangarsi. Uno dei tre, poi, non fa più notizia da tempo, se non per il fatto che riesce a superare se stesso (da Terapia e pallottole a Manuale d'amore la discesa nel genere comedy è stata da pista nera). Ma la Sarandon non era mai scesa a tanto, e della Diane Keaton icona sofisticata ed elegante rimane solo il look.

Già il più recente capitolo della saga Ti presento i miei si era attestato, mutatis mutandis, non lontano dai livelli di un cinepanettone italiano. Qui si scade nella volgarità di grana grossa più o meno nella stessa misura, e risulta totalmente inefficace la componente comica, irrinunciabile se si vuol dare un qualche senso ad un'operazione del genere. Sembra invece che dopo un po' la sceneggiatura rinunci del tutto al tentativo di far ridere o sorridere, buttandosi su buoni sentimenti e romanticismo (il termine va inteso solo come riferimento alle intenzioni, giacché il risultato non mostra nulla che si avvicini lontanamente al concetto di romantico). Nemmeno Robin Williams, che stava lì apposta, con il ruolo deputato - il prete celebrante - viene utilizzato. Inspiegabilmente peraltro, perché non si ricorre neppure a mezzi facili come le voci buffe, specialità dell'attore.
Senza l'ombra di un'invenzione non solo visiva - pretesa eccessiva - ma neanche narrativa, senza un personaggio che non si esaurisca in un aggettivo, il film va avanti senza una ragione apparente.
I problemi si risolvono da soli, che si tratti dell'infertilità o di una crisi di coppia, dell'intolleranza religiosa o del perdono di un tradimento. La azioni sono incoerenti o prive della minima giustificazione che uno sceneggiatore di età superiore ai 6 anni dovrebbe garantire al pubblico - si pensi all'insensatezza della rimpatriata De Niro-Keaton ai danni della Sarandon, al modo in cui la quasi sorella decide e poi rifiuta e poi ridecide di sedurre il giovane immacolato (sì, c'è anche il trentenne vergine), solo per fare due esempi. Il finale è una dura prova per lo spettatore, e quando appare l'anello tutto è perduto, iniziano i balli di rito, si rinuncia ad una parvenza di ironia o, meglio, autoironia, e arriva persino la sentenza finale (Esistono tanti tipi di amore. Io in questo momento li provo tutti).
Nessuna menzione per i giovani del cast, belle statuine capeggiate da Amanda Seyfried in uno dei suoi ruoli da sposina promessa sull'orlo del caos generato dai propri parenti disfunzionali; nel mucchio si salva solo l'interpretazione di Katherine Heigl, cui resta "solo" la colpa di essere in questo film.