Drammatico, Sala

ALABAMA MONROE

Titolo OriginaleThe Broken Circle Breakdown
NazioneBelgio/Olanda
Anno Produzione2012
Durata111'
Tratto dadalla pièce The Broken Circle Breakdown Featuring the Cover-Ups of Alabama di Johan Heldenbergh e Mieke Dobbels
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Belgio, nei pressi di Gand. Colpo di fulmine tra Didier, leader di un gruppo bluegrass, e Elise, tatuatrice che della band diventerà cantante. A coronare l’amore la nascita di una figlia, Maybelle. Ma il destino, sotto forma di cancro, è in agguato.

RECENSIONI


Avanti e indietro, tra flashback e flashforward, nella storia d'amore tra Elise e Didier: le delusioni soppesano le aspettative, l'idillio misura il conflitto, le stanchezze del ménage rimodellano le palpitazioni dell'innamoramento, la felicità si lega a filo doppio con la sofferenza. La decostruzione della cronologia nella cronaca amorosa è ormai una struttura rodata del cinema drammatico-sentimentale degli ultimi anni (si veda, ad esempio, Blue Valentine di Derek Cianfrance): tentativo struggente di opporsi all'azione corruttrice del tempo, riconsidera l'amore, al di là della sua corporeità, come un flusso psichico in continua rigenerazione - will the circle be unbroken? - , fonte inesauribile di tormento ed estasi. Va dato atto a van Groeningen, qui al suo quarto lungometraggio, pluripremiato e di grande successo in patria e all'estero, di aver saputo padroneggiare questo meccanismo, a rischio d'abuso, rimanendo al di qua dell'artificio e facendolo rispecchiare nella temperatura emotiva delle performance musicali che costellano la narrazione siglando i diversi stadi della relazione della coppia: vibrazioni dolciamare, la gioia del cantare inscindibile dalla malinconia del cantato.


Lui, Didier, ha trapiantato nella campagna belga, nel cuore dell'Europa, il mito dell'America rurale. Un piccolo ranch, un pick-up, animali in libertà, il culto del bluegrass - "la musica country nella sua forma più pura" -: l'uomo crede ancora, con beata ingenuità, nel sogno americano, in un'utopia già ampiamente superata dalla Storia, che vedrà crollare, sgomento, nel piccolo schermo della tv tra le immagini delle Twin Towers in fiamme e i proclami reazionari di un piccolo, buffo e tragico ometto di nome George Bush Jr. Lei, Elise, apparentemente più esuberante ma minata da un'inquietudine sotterranea che ne insidia la luminosità, ha il corpo istoriato di nomi e ricordi, la pelle come palinsesto sul quale scrivere e riscrivere davanti agli occhi di tutti la propria vita, occhi curiosi e bocca grande, stessa sensibilità post-hippy di quell'uomo barbuto col quale deciderà di vivere e cantare finché morte non li separi. La loro piccola, Maybelle, dal nome di "Mother" Maybelle Carter, madre di June Carter e suocera di Johnny Cash, sarà la cartina al tornasole delle loro affinità e, ancor più, delle loro differenze.


Van Groeningen maneggia un materiale melodrammatico ad alto voltaggio - tratto da una pièce co-scritta, messa in scena e interpretata dallo stesso attore protagonista del film - correndo su crinali rischiosi, al limite del ricattatorio - il pericoloso binomio amore/malattia che qui per di più colpisce una bambina, con tutto il corredo di scene ospedaliere oscillanti tra speranza e sconforto (il regista, diciamolo, vuole vincere facile con le nostre ghiandole lacrimali). Calca strade già battute ma si trattiene da facili eccessi, sbanda sì (l'inutile saturazione stilistica del "colpo di scena" del prefinale) ma riesce dove sarebbe stato facilissimo sbagliare (l'azzardato eppur emozionante finale). Sembra però non credere fino in fondo nella forza delle pure dinamiche melodrammatiche nel momento in cui il corpo a corpo tra materialismo e spiritualismo - e tra le cecità rispettive della ragione e della religione -, derivante dalla reazione al lutto, si traduce in una questione etica fin troppo sottolineata nelle sue fazioni e nei risvolti ideologici, appesantendo inutilmente la narrazione. Esemplare dei pregi e difetti del film diventa allora la sequenza della performance in teatro del brano If I needed you: alla sapiente messa in scena di sguardi che s'incrociano e si schivano, gesti accennati, musica che filtra e proietta stati d'animo contrastanti segue il rabbioso e pedante comizio laicista e anti-teocon di Didier, che disinnesca con la sua ovvia platealità la carica emotiva dell'esibizione.


Sarebbe comunque ingiusto far passare in secondo piano quella che è la vera carta vincente di Alabama Monroe, ovvero l'indiscutibile chimica tra i due ottimi e appassionati protagonisti, Verle Baetens e Johan Heldenbergh, catturata questa sì con polso fermo e senza cedimenti dall'occhio del regista. E al tempo stesso sarebbe ingeneroso liquidare l'intera operazione appellandosi alla formula, a dire il vero un po' stantìa, della "pornografia del dolore". Accostato da molti per mera analogia tematica a La guerra è dichiarata di Valérie Donzelli, Alabama Monroe non ha di sicuro né la libertà formale del film della regista francese né il suo disperato ed euforico vitalismo. Eppure, anche se maggiormente convenzionale, remissivo di fronte a un certo fatalismo letterario e di più facile presa "popolare", si tratta sempre di un'altra, condivisibile, dichiarazione di guerra. Alla morte. Ma ancor più, alla morte dell'amore.