Processuale, Recensione

DEVIL’S KNOT

Titolo OriginaleDevil's Knot
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata114’
Tratto dadal libro di Mara Leveritt
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Maggio 1993, West Memphis, Arkansas. Dopo la denuncia della loro scomparsa, tre bambini di otto anni, vengono trovati uccisi, con i cadaveri martoriati. La polizia imbocca la pista del rito satanico e arresta tre ragazzi. Un investigatore ha forti dubbi sulla loro responsabilità e inizia una propria controindagine che opporrà a quella della pubblica accusa al processo. Tratto dalla storia dei “tre di Memphis” che ha fatto molto discutere l’opinione pubblica americana, raccontata nel libro Devil’s Knot: The True Story of the West Memphis Three di Mara Leveritt.

RECENSIONI

Il cinema recente di Atom Egoyan si fonda su un evidente paradosso. La sua parabola artistica è indubbiamente nella sua fase discendente, avendo già raggiunto gli apici negli anni novanta, e per giunta si trova ormai in posizione decentrata a quello che è stato il fulcro del suo cinema, rispetto ai tempi e ai cambiamenti della società. Egoyan è stato il grande profeta del mondo virtuale ma ora la realtà ha anche superato quelle che erano le sue previsioni. Che ruolo può avere un oracolo una volta che i suoi vaticini si sono ormai avverati? Di queste contraddizioni il regista sembra perfettamente consapevole e prenderne atto, come già dimostrato in Chloe. E così Egoyan con Devil's Knot, scardinando come nei suoi film il flusso del tempo, torna nel suo "dolce ieri", raccontando una storia degli anni novanta, quelli che hanno visto la sua fioritura cinematografica, la sua maturità artistica. Il 1993, anno in cui inizia il film è quello che segna il passaggio dalla sua fase sperimentale, con Calendar, al portare le sue tematiche in un cinema relativamente più ‘mainstream’, con Exotica. Ed Egoyan sottolinea questa derivazione, e questo debito, mostrando subito, in una delle prime inquadrature, uno scuolabus, ovvio riferimento a Il dolce domani, che funziona anche come un'enunciazione sinistra di dove il film andrà a parare. Ancora il lutto devastante per delle piccole vite spezzate, che sconvolge una piccola comunità. E come in Exotica tornano le ricerche dei cadaveri, spasmodiche, angoscianti. Ancora il cinema del dolore, della scomparsa, dell’assenza che può riguardare anche un popolo intero come quello armeno (Ararat).

Un incipit inquietante, cupo, a partire dalla scritta-monito “Tratto da una storia vera” dove tutto fa presagire la tragedia mentre si tratteggia un ambiente borghese, residenziale, tranquillo negli istanti che precedono la tempesta. Ancora il tema della giustizia umana fallace, palliativo. Pur vincolato da esigenze cronachiste, da un lato, e da un teorema innocentista dall’altro, Egoyan riesce comunque a sfumare il tutto. Come non si è saputa, e non ha nessuna importanza saperla, la causa dello sbandamento dello scuolabus de Il dolce domani, così in Devil's Knot non c’è nessuna certezza su chi sia stato quel pifferaio magico che ha portato i bambini nell’acqua. E la figura dell’investigatore privato Ron Lax / Colin Firth è sostanzialmente assimilabile a quella dell’avvocato Mitchell Stevens / Ian Holm nella loro patetica, e aprioristica, ricerca di una verità. Entrambi peraltro scandagliati nei loro tormenti privati, il divorzio per il primo e la figlia tossicodipendente per il secondo. Stavolta Egoyan ci mostra i cadaveri dei bambini, per documentarli, ma realizza anche una scena in cui la madre vede ancora il figlio fuori dalla finestra, in giardino. Un sogno reso con una presenza fisica, un’immagine mentale ma pur sempre un’immagine in un film dove le immagini giocano un ruolo ontologico. Ancora è questa l’assenza per Egoyan: i bambini sono come stati risucchiati in un'altra dimensione, inghiottiti in un Hanging Rock: un buco nero cinematografico, dove «ci sono alberi profumati e sgorgano sorgenti vaporose, dove i fiori hanno colori inusitati e nuove e strane sono le cose». La tipica cifra stilistica del regista canadese, incentrata sulla narrazione a mosaico e a incastro e sull’intreccio temporale, è qui più sottile e non usata in modo massiccio come in altre sue opere. Atom Egoyan gioca di sottrazione con Atom Egoyan. Questa si manifesta nel ricorrere di riprese filmate da telecamere, dalla definizione più bassa, soprattutto di testimoni per il processo, di telecamere esibite, sfilate di telecamere, videocamere, del mostrare l’atto di filmare. E poi le interviste televisive, la tv vista nel pub, le ricostruzioni che intercalano flashback con filmati registrati. Si vede anche una troupe che sta girando un documentario sulla vicenda, che potrebbe essere uno dei tanti che sono stati effettivamente realizzati. L’investigatore intima di guardare in camera, mentre lo interroga, al bambino testimone dei fatti, depositario della verità, colui che sa, come Nicole / Sarah Polley de Il dolce domani, ma enigmatico con la sua litania «Nessuno sa quello che è successo tranne me». La sua voce off, che racconta i fatti quindi riferita a un momento futuro rispetto alle immagini che accompagna, contrappunta il momento iniziale dei bambini che si dirigono all’appuntamento verso la morte. Ma qui Egoyan gioca una delle sue carte sull’ambiguità per alimentare la suspense: il pubblico è portato a credere che sia la voce di uno dei tre bambini e di conseguenza a pensare che sopravviveranno.

Il processo, celebrazione della giustizia umana, è fallace anche perché preferisce i rapporti, i verbali scritti, o le testimonianze, alle immagini, che sono tenute in minore considerazione. Ma i rapporti possono essere menzogneri mentre i video dovrebbero essere veritieri. Egoyan non si ferma però a un tale schematismo, facendo vacillare anche le certezze visive attraverso tutta una serie di situazioni: la verità mente. Il compagno della madre di una delle vittime accusa la donna di recitare nelle interviste televisive: la ripresa altera quindi la realtà. E i detective, quando la incontra alla fine del film, le dice di non poter dimenticare il suo volto da quando lo vide per la prima volta in tv. La televisione ha quindi agito da motore dandogli l’impulso per occuparsi del caso. Una testimonianza chiave per l’accusa è quella della ragazza che asserisce di essere stata accompagnata a un rito satanista dagli imputati. La scena è vista come flashback dentro a un altro flashback, quello dell’investigatore che l’ha interrogata, ed è risolta con un campo-controcampo tra l’inquadratura della ragazza che guarda spaventata la diabolica cerimonia e la cerimonia stessa. Ron Lax evidenzia subito le falle di tale racconto, il ragazzo che l’avrebbe accompagnata in macchina non ha la patente e nessuno ha quel tipo di vettura, una Escort rossa. E in effetti lo sviluppo di quella sequenza – a questo punto non è più un flashback soggettivo ma oggettivo pur proseguendo la scena precedente – rivela, semplicemente allargando l’inquadratura del controcampo, che l’immagine del rito satanico che sta vedendo la ragazza è contenuta in uno schermo televisivo e appartiene a un film, per la precisione l’horror In corsa con il diavolo (Race with the Devil, 1975). Le immagini non mentono, ma possono essere manipolate o travisate. Egoyan mischia le carte della consistenza delle immagini mescolando cinema, televisione, cinema nel cinema, per mostrare il potere di suggestione di televisione e cinema, capace di lasciare un segno nell’immaginario. Come non pensare allo straordinario documentario di Werner Herzog On Death Row, ritratti di detenuti nel braccio della morte, dove un intervistato, sempre nella profonda America rurale, è convinto che L’esorcista di Friedkin sia un documentario?

Un altro momento chiave del film è quello dell’interrogatorio di una ragazzo che per un attimo copre con un fazzoletto la telecamera che lo sta inquadrando, per poter parlare liberamente. Egoyan racconta l’episodio alternando flashback con le riprese video, disvelando con i primi la parte eclissata. L’occhio del cinema arriva quindi oltre la ripresa filmata. Quella confessione al buio potrebbe scagionare gli imputati ma il video non viene acquisito agli atti proprio perché occultato. Ma, protesta Lax, ancora una volta è un’argomentazione pretestuosa, perché comunque l’audio della dichiarazione coperta è stato comunque registrato. Egoyan arriva così a scomporre e scorporare gli elementi della visione. A questa scena segue subito quella dell’udienza a porte chiuse, spiata da una finestrella: un’immagine muta, ora è l’audio a essere stato rimosso. Egoyan in definitiva, per mettere in scena con il suo stile quel fatto di cronaca, per raccontare la realtà, come già in Ararat, costruisce un’opera che si fonda su un’ipertrofia di immagini ma in cui è paradossalmente assente l’immagine che dovrebbe essere il cardine dell’evento oggetto del film, quella primaria dell’uccisione dei tre bambini. E in questa struttura inserisce, con il suo occhio antropologico ed etologico, i temi contenutistici, il satanismo e l’integralismo religioso, le sette, la fobia per l’heavy metal, l’America profonda, il giustizialismo spicciolo, la pena di morte, il diritto alla difesa, la caccia alle streghe, la ricerca del capro espiatorio. Memorabile rimane la battuta nel sermone di un pastore battista che annovera la cremazione tra gli indicatori satanici, insieme a rapimenti, abusi sessuali, cannibalismo. Il paradigma di tutto il cinema di Egoyan, delle sue tortuosità visive e visionarie, è L’ultimo nastro di Krapp, la pièce di Samuel Beckett che il regista aveva messo in scena parecchie volte da giovane con la sua compagnia teatrale dilettante, e di cui ha poi realizzato un adattamento televisivo all’interno del progetto “Beckett on Film”. Un testo che vede un vecchio personaggio ascoltare i suoi nastri registrati trent’anni prima, un dialogo (o un monologo) di un uomo anziano con se stesso giovane reso possibile dalla tecnologia delle registrazioni audio. Una situazione che ricorre, adattata nella filmografia di Egoyan, valga per tutte quella di Joe Hilditch / Bob Hoskins ne Il viaggio di Felicia, che vede se stesso bambino nelle rubrica televisiva di ricette della madre. In Devil's Knot abbiamo ancora un nastro, quello della confessione del bambino superstite, che viene ascoltato in aula ma non viene ammesso dalla corte come prova, in favore delle testimonianze orali dirette. Ma ora il testo beckettiano diventa metafora di tutto il cinema del regista. L’intreccio temporale dei suoi film si estende alla sua filmografia come macrostruttura. Egoyan è ora il Krapp del futuro, e Devil's Knot il suo ultimo nastro, con cui dialoga con il suo stesso cinema del passato.

Si possono rinvenire link tematici con Il Dolce Domani e stilemi ricorrenti di un cinema che fonda se stesso su tutto ciò che si frappone fra l’essere umano e la verità-realtà, distorcendola: fatto sta che Egoyan, dopo Chloe, continua a lavorare su commissione, su sceneggiature altrui, abdicando al suo cinema autorale, coerente nell’inscenare frammenti e giochi di percezioni. Questa offerta dagli Stati Uniti l’ha accettata in quanto interessato a sondare i pregiudizi umani, soprattutto se sviscerabili nel profondo e bigotto sud americano: certamente fa “suo” il progetto, basti pensare che la sceneggiatura che ricostruisce le indagini di un fatto di cronaca scottante, instillando il ragionevole dubbio, è opera di Paul Harris Boardman e Scott Derrickson, responsabili di The Exorcism of Emily Rose che, nonostante le apparenze, era mero film di genere con dramma processuale. Egoyan sottrae glamour e spettacolarità, facendo sembrare la sua opera, però, un qualunque film televisivo “fatto vero”, complice la fotografia a luci naturali, tendenti al giallo, del fido Paul Sarossy: segni di ciò, le scritte cronachistiche, il lungo dramma processuale alla fine, gli stessi interpreti che, Colin Firth a parte, sono trasformati in modo da non “risaltare” ma sembrare figuranti del “popolo” (vedi Reese Witherspoon e Kevin Durand). La particolarità autorale c’è, ma è un’arma a doppio taglio: per restituire la labilità della giustizia umana e non potendo chiudere un giallo insoluto, ad un certo punto Egoyan va “off” e si affida alle varie testimonianze, usando la figura dell’investigatore per rimettere assieme i pezzi, senza concedere climax o colpi di scena. Semplicemente, ogni tanto, compare un elemento che fa crollare il castello di carte costruito in precedenza. Ma non convince: se voleva essere opera che, nella drammaturgia, rispecchiasse l’inconoscibilità della realtà e la fallacità del giudizio umano, non si è avuto abbastanza coraggio. Se, peggio, si è solo voluto giocare ogni tanto di sottrazione e salti temporali per rendere meno ovvio il racconto, era preferibile un “vero” film tv lineare che, almeno, ci restituiva con più esattezza la cronaca degli eventi.