TRAMA
Dopo il fallimento della loro piccola impresa manifatturiera, a conduzione famigliare, una famiglia salentina si rifugia in un podere in campagna, coltivando la terra e vivendo del baratto dei propri prodotti. Una scelta che funzionerà da riscatto della vita di quattro donne, Salvatrice, Adele, Maria Concetta e Ina.
RECENSIONI
Nemmeno sperare che sia femmina. Neanche questo auspicio, a differenza del finale del film di Monicelli, è concesso alla piccola comunità matriarcale rurale di In grazia di Dio, perché, almeno pare di capire, per il nascituro ci si sta orientando verso nomi maschili. Il richiamo a Speriamo che sia femmina viene spontaneo, per lo spiraglio finale di una nuova vita e perché entrambi i film sono un affare di donne di campagna, in un casolare, anche se il cinema di Winspeare non ha bisogno di attrici blasonate. Sono donne antiche e al contempo moderne quelle raccontate dal regista salentino. Legate alla tradizione contadina, alle filastrocche popolari, alla vita nei campi, ai ritmi di una natura che si palesa come salvifica rispetto al fallimento della civiltà industriale/manifatturiera. Ma sono anche donne emancipate, che possono usare gli uomini come accessori, che possono vivere un amore fuori da matrimonio, che possono innamorarsi a sessantacinque anni, incuranti delle convenzioni sociali.
Campi di fiori selvatici, ulivi, una natura verde argentato, i muretti di pietra a secco, le piazze bianche dei paesi, il cielo terso, la luce calda, il vento. Le prime inquadrature a delineare il paesaggio mediterraneo, la terra salentina di cui palpita il cinema di Winspeare. Un mondo armonico, dove si tasta ancora il didietro delle galline per vedere se c’è l’uovo, dove si usano le olive anche per far scomparire le rughe nell’inseguire la giovinezza, dove si mettono i pomodori a essiccare e si smuove il letame con la forca. Un’estetica che può essere facilmente cannibalizzata e alterata, come si vede nella scena in città dove gli ulivi sono imbrigliati in vasi eleganti, in una confezione trendy, e portano non a caso a un ‘compro oro’.
Si percepisce la presenza incombente di un Nord, che può rappresentare la via di fuga dell’emigrazione (la Svizzera), la causa dei guai (la ditta che non prende più le commesse), la minaccia di espropriazione anche culturale (l’imprenditore che vorrebbe acquistare i possedimenti per farne un resort), il linguaggio ufficiale (Stefano che corregge le espressioni popolari di Ina in nome di un lessico percepito come settentrionale). Siamo lontani dai ritmi scanzonati delle tarante degli esordi del regista: un’altra età e altri tempi, ora viviamo in un momento drammatico. Tuttavia questo nuovo film di Winspeare perpetua una dimensione vernacolare, la spontaneità di un linguaggio popolare, semplice, dialettale.
Winspeare fa combaciare la sobrietà felice esposta nel film con una leggerezza ambientale della sua lavorazione. E così l’economia di sussistenza, la finanza primitiva, il concetto di dono trovano il corrispondente nei tanti piccoli sponsor che hanno contribuito a rendere possibile il film anche attraverso donazioni di prodotti usati come pacchi baratto per compensare operatori e comparse. E coerentemente Winspeare utilizza attori non professionisti, volti locali, facce segnate dalla vita. Un manifesto estetico di frugalità esposto in negativo nella figura di Maria Concetta, patetica aspirante attrice, dalla recitazione finta e impostata che contrasta con la spontaneità della parlata verace che Winspeare riesce a ottenere dai suoi interpreti. «Fatelo fare a una suora e non a un’attrice» dirà Maria Concetta in una prova, in cui dovrebbe interpretare una religiosa, al regista che la corregge: un anelito all’adesione alla realtà. E la ragazza potrà accedere a un provino di Ozpetek: una chiara presa di distanza da un altro cinema.
Il regista adotta una narrazione condensata, accelerata, ‘tarantolata’, fatta di elissi, salti, elementi suggeriti, non detto. Non è chiaro per esempio quale sia il traffico losco in cui si cimentano Vito e Crocifisso; e dalla scena della barca in panne si passa subito a quella della prigione; la rottura tra Adele e Stefano, le percosse a Ina e tante altre cose sono lasciate alla ricostruzione dello spettatore. Si passerà alla fine del film, senza soluzione di continuità, dalla tragedia dell’annuncio della gravidanza di Ina, alla discussione, tutta tra donne, sul nome da dare al nascituro.
Il regista si muove su un crinale sottile cercando di evitare stereotipi e cliché del Sud. Non sempre gli riesce. Particolarmente infelice poi il personaggio di Stefano, un concentrato delle negatività del film. Un deus ex machina che viene da Equitalia (e già questo…), capace in quattro e quattr’otto di trovare un escamotage per dimezzare i debiti di Adele, ma solo perché innamorato di lei; dotato di un’arte maieutica che porta Ina, ragazzina fancazzista, a citare Kierkegaard, in un momento davvero patetico del film, che fa il paio con l’inquietante ringraziamento, tra i titoli di coda, a Loredana Lecciso.