TULPA

TRAMA

Lisa di giorno è una manager inappuntabile, di notte frequenta il club Tulpa dove si produce in pratiche orgiastiche. Una serie di spettacolari omicidi prende di mira i membri del club…

RECENSIONI


La prima sequenza di Tulpa è, a suo modo, magistrale: in un impasto di sesso, masochismo, alcool e cocaina si dispiega un inganno percettivo-uditivo a danno della vittima. Mentre il partner del gioco bondage è di spalle a sniffare la donna vede avvicinarsi l’assassino ma è imbavagliata, dunque il suo ansimare si confonde e suona “normale” nel contesto. Il killer può avvicinarsi indisturbato e affondare la lama, beffando sia la donna (vede il pericolo, ma non può parlare), sia l’uomo (non viene avvertito del rischio). A seguire ecco la castrazione con primo piano sul pene reciso, estremizzando improvvisamente l’opportunità di cosa mostrare. Nel mezzo guanti neri, impermeabili scuri, lame che rilucono nel buio. Zampaglione dimostra subito di conoscere i classici (non solo seventies: la vittima che non parla ricorda perfino La scala a chiocciola di Siodmak), e soprattutto di saper girare una scena lapidaria, incisiva, con tutte le “cose” al posto giusto.


Ispirato al giallo italiano degli anni ’70-80, ma non al thriller (“Troppo serioso e pieno di indagini di polizia che mi annoiano”, Zampaglione – qui invece non si vede un detective), Tulpa è riallestimento contemporaneo del genere e insieme omaggio retrò: nelle figure, codici e forme che riscrive (sul soggetto la mano di Dardano Sacchetti). Dopo il torture Shadow il regista si immerge in un altro genere, malgrado le assonanze, e lo reinstalla a Roma oggi sfruttando lo spirito del tempo (l’incipit sadomaso 40 anni fa non sarebbe stato possibile). Arriva subito la connotazione spaziale, con la cinepresa che ruota minacciosamente all’Eur, per poi mostrarci una Gerini in tenuta da jogging, con chiara allusione all’aspetto erotico che era presupposto di quel genere. Tutti i suoi elementi sono reimpaginati: ha perfetta coerenza il presunto miscasting di Claudia Gerini, che tentenna nei punti caldi e infine capitola (era una grande attrice Letícia Román? Daria Nicolodi? E Florinda Bolkan? E così via), ma non è questo il punto: non le si chiede espressività ma piuttosto prestazione corporale, soprattutto in un giallo “fisico” come questo, ed è qui che Gerini riesce. Il suo erotismo soft da una parte indirizza la trama visiva, permettendo gli stralci più (per così dire) visionari, dall’altra riproduce quell’intreccio tra sesso e morte che serviva (serve) a blandire adeguatamente il pubblico più voyeurista.


Tralasciamo il puzzle (già fatto) dei rimandi tra Argento, Bava, Fulci e altri. Anche se – a livello teorico – tutto il film può essere inteso come rilettura di Sei donne per l’assassino dove, ironicamente, l’atelier di moda viene sostituito da un night a luci rosse. E’ tutto un gioco, sembra dire Zampaglione. E infatti la storia di Tulpa è solo un McGuffin per consentire una serie di omicidi coreografici, come il delitto sulla giostra: qui, convertendo uno strumento infantile in arma mortale, il killer ottiene il disocchiamento della vittima con zoom (ancora) sull’occhio cavato. Conta solo il visibile, il resto è pretesto, al centro c’è sempre la spettacolarità della morte. Come imparava anche il protagonista di Shadow, l’occhio separato e isolato dal resto del corpo riconquista simbolicamente la dignità di una visione, quella del cinema che fu e che qui c’è ancora: guardare è vedere il genere.


Il club Tulpa è simbolo grossolano del Male, la traccia buddista una sciocchezza qualsiasi, l’occultismo da quattro soldi, il cenno sovrannaturale risibile: ogni figura abita uno stereotipo e lo sa, non per l’incapacità di scrittura ma per la sua impossibilità. Se l’esumazione del genere è filologica nulla si può aggiungere di nuovo, bisogna passare per i suoi luoghi comuni. Uno di questi è il disinteresse strategico per la trama: “la realtà è spesso deformata ai limiti del paradosso” (il regista), il verosimile passa per la lente deturpante, niente va preso sul serio. La rivelazione dell’assassino arriva repentina e incredibile: anche qui torniamo al giallo di quegli anni che, come detto, ha sempre chiesto una grande suspension of disbelief (o nessuna, a scelta) e dove – soprattutto – l’identità del colpevole non ha alcuna rilevanza. Lo schema è sempre lo stesso (delitti a catena), il fine altro, obiettivo l’invenzione della morte, l’acrobazia del decesso e l’ammazzamento come installazione. Quella forma mentis, quasi ideologia, che portava a costruire 5 bambole per la luna d’agosto soprattutto per giungere alla fantasmagorica ripresa delle biglie, simbolo del gratuito al cubo, il joke a cui tutto tende.


Così, in piccolo, Tulpa: sembra solo un revival eppure è più coraggioso della maggioranza del cinema italiano 2014, nel suo riallestire un genere oscurato e lambire l’horror che esce dal medio, nell’assoluta gratuità lontana dal messaggio come dalla formula drammatica comoda e imbrigliante. Finale che ripete l’inganno, in un trucco argentiano: vediamo qualcuno che entra in casa, dovrebbe essere l’assassino ma in realtà questi è già dentro. E poi la chiosa “cattiva” con l’ultima vittima che resta in trappola. Cosa vogliamo di più? Rianimare il cadavere del giallo, nel nostro cinema, è un sottile atto di anarchia: da Shadow a Tulpa l’evocazione di due sensibilità, diverse ma coerenti, secondo una linea logica. Se si vuole criticarlo, si può fare nella misura in cui venivano criticati i gialli di riferimento, che spesso centravano lo scopo: riprodurre un mondo chiuso, una palla di vetro e sangue, un giocattolone  che vuole solo farti divertire. E allora bene Zampaglione, bene una ri-proposta del genere.