TRAMA
Antonio è solo a Milano con il suo bambino, Pietro, affetto da una grave malattia: sono arrivati al nord per cercare uno spiraglio di salvezza. Jaber, quindici anni, vive a Milano con un gruppo di connazionali: è migrato in Europa da poco, in fuga dal Nord Africa e dagli scontri della primavera araba. L’ospedale è una città nella città dove entrambi sono costretti a sostare: Antonio per guarire Pietro, Jaber per assistere il suo amico Youssef. La malattia è l’occasione per un incontro tra due anime sole e impaurite, due “corpi estranei” alle prese con il dolore.
RECENSIONI
Sappiamo quanto il cinema italiano che guarda all'attualità sia succube della logica del Tema che costituisce in troppi casi la genesi del film: si parte cioè dall'argomento da trattare e da quello poi si perviene ad una narrazione che giustifichi la tematica prescelta, il regista mettendo in scena una sua visione del mondo e delegando alla storia il compito di farsi emblema ed esempio di quel punto di vista. Di questi film-dossier la cinematografia italiana recente è piena.
I corpi estranei è un'opera preziosa perché, in un modo che è molto più vicino a certe filmografie che amiamo - quella francese, ad esempio -, sfugge a questa logica, partendo, come fa, dai personaggi, dal modo in cui, avvicinandosi, interagiscono: in questo caso due corpi che muovendosi cercano, anche inconsapevolmente, un ritmo comune e che, lentamente e in maniera imperfetta, finiscono col trovarlo.
Al centro di questo lavoro c'è dolore, fisico (il cancro è uno dei tanti corpi estranei di questo film) e morale, e compassione, come modalità di soffrire insieme, ma nessuno sfruttamento drammaturgico della sofferenza, nessun pietismo ricattatorio, piuttosto un patire sommesso, il suo logorare estenuante, la sua quotidianità, la sua normalità quasi, perché quello che conta nel cinema di Locatelli è lo sguardo. E ciò che constata, Locatelli è attento a non forzarlo, a non calcarlo, a restituirlo con partecipazione, certo, ma anche con il rigore di chi, avendo frequentato il documentario, confessa candidamente di non avvertire grandi differenze tra la prassi finzionale e quella documentaristica. Anche per questo I corpi estranei sfugge, come il precedente film, a un'altra delle logiche imperanti nel nostro cinema, cioè quella di presentare una fabula che debba essere sempre fortemente leggibile e che a questo scopo ricorre moltissimo alla didascalia, alla spiegazione ad ogni costo. La macchina da presa dunque mostra, non dice, non imbecca lo spettatore, gli lascia spazio, rispetta la sua personale valutazione.
È un cinema dalle maglie larghe quello de I corpi estranei, nel quale chi guarda ha spazio per elaborare un pensiero, un'opinione, un'impressione personale, in cui le immagini non forniscono risposte, ma sollecitano domande. Come ne Il primo giorno d'inverno (anche se questo film è un bel salto in avanti rispetto al precedente) il regista riesce a raccontare storie estremamente sintomatiche senza renderle degli assoluti, senza intenti dimostrativi, rimanendo legato alle particolarità della situazione che sta raccontando, senza voler rendere programmaticamente significativo quello che si rappresenta sullo schermo.
La storia di Antonio non è una cosa soltanto allora, non è solo il ritratto di un padre (un Madonno con bambino, ha detto il regista) in pena per il figlio malato e che aspetta un verdetto, non è solo lo specchio di una situazione culturale (il razzismo dell'uomo è indotto dal suo ambiente e dalla sua condizione di vita; la chiusura del protagonista è manifestata dal suo ossessivo parlare al telefono con la moglie, in quel rifugiarsi nella dimensione conosciuta e in quel non rivolgere la parola alle persone con le quali sta condividendo la sua situazione presente, individui che rappresentano ciò che non conosce e che quindi teme), non è soltanto la rappresentazione puntuale di un graduale processo di spoliazione dal pregiudizio, il dolce arrendersi a un desiderio represso di solidarizzare, ma è tante cose quante sono le strade interpretative che si sceglie di battere. Anche quella sottilmente (e non letteralmente) mistica, ad esempio: la preghiera che Antonio cerca di recuperare dalla sua memoria non è a caso l'Angelo di Dio e Jaber è l'angelo invocato che, in quella situazione contingente, va a custodire e proteggere il suo figlioletto malato, un angelo che non si dichiara tale, ma che anzi è nascosto proprio in un corpo che, più di altri, suona estraneo, un angelo che va riconosciuto dietro quella apparenza così infida e sospetta.
Muovendosi prevalentemente in corridoi e sale d'aspetto - scelta che indirettamente rende in visione la situazione di transizione e di passaggio del suo protagonista -, I corpi estranei è anche la storia di un uomo in attesa, che trova in Filippo Timi un'incarnazione straordinaria. Difficile dimenticare la sua interpretazione, tanto aderente alla situazione essa appare, così scarnificata e dolente, così vera, risultato ulteriore di un discorso cinematografico che proprio sul lavoro nella quotidianità, sull'immersione nel contesto, nella mimetizzazione della macchina da presa si fonda. L'interazione tra il protagonista e il bravo Jaouher Brahim (al suo esordio) è frutto di questo lavoro.