Drammatico, Raiplay, Recensione

FATHER AND SON

TRAMA

Un giorno Ryota, un uomo che si è guadagnato tutto ciò che ha con il duro lavoro, e la moglie Midori ricevono una telefonata inaspettata dall’ospedale in cui sei anni prima è nato il figlio Keita. Con stupore apprendono che ai tempi vi fu uno scambio di neonati e che Keita non è il loro figlio naturale. Da quel momento, Ryota è costretto a fare i conti con una decisione che potrebbe cambiare per sempre la sua esistenza: scegliere tra il figlio che ha cresciuto come tale e quello che invece gli appartiene per natura. Inizierà così a rimettere in discussione anche se stesso e il tipo di padre che è stato.

RECENSIONI

Assenza e presenza, 0 e 1, sono categorie che nel mondo di Hirokazu Koreeda non trovano spazio. Non c'è un 1 che si contrappone allo zero: al massimo può esserci uno zero virgola uno (0,1): ciò che chiamiamo “vita” può essere solo una passeggera increspatura su una superficie fondamentalmente immobile, e pronta subito dopo a ritornare immobile.
Per questo il mondo di Koreeda, anche se può non sembrare, è quello della commedia: il mondo, cioè, dove le differenze sono piccole differenze, e gli squilibri in cerca di ricomposizione sono piccoli squilibri. Anche e soprattutto dove c'è la morte di mezzo, come in quell'Afterlife che lo rese celebre una quindicina di anni fa.
C'è dunque una logica dietro al fatto che per firmare il proprio film migliore in assoluto (fino ad oggi), Koreeda ricorre a uno dei cliché più sempiterni della commedia: lo scambio di neonati nella culla. Scambio che, ovviamente, coinvolge una famiglia ricca e una povera, un padre allegramente perdigiorno da un lato e un workaholic di successo dall'altro. Perché Koreeda fa aderire il nostro punto di vista a quello del secondo? Perché vuole che lo spettatore si “mondi” dell'illusione di cui, con fatica, arriva a liberarsi quel personaggio: che possa esserci qualcosa come una linea del sangue che prosegue di padre virtuoso in figlio virtuoso e così via. In ballo non c'è, ovviamente, solo un'idea di paternità, ma un modo di concepire il tempo. L'illusione da abbattere è quella che esista una linea retta, che gli sforzi siano l'anticamera del risultato, che da 0 si passi a 1 e magari anche a 2.

In frontale opposizione a questa idea (peraltro non priva di corollari politico-sociali, su cui il film non si attarda ma che tratta quanto basta per renderli inequivocabili), Koreeda costruisce tutto il suo film. Prende i suoi tre-quattro spunti narrativi “forti” (la scoperta dello scambio, il processo penale, l'inversione riparatoria dei pargoli tra le due famiglie...), ciascuno lo sminuzza in pezzetti più piccoli, e poi li sparpaglia lungo tutto il film alla massima distanza reciproca possibile in modo da disattivare il loro potenziale di concatenamento (dunque di azione). Rimane una tendenziale e fortissima indipendenza delle singole scene, tutte dolcemente adagiate su toni supinamente quotidiani e ordinari, ulteriormente smussate dalla tendenza figurativa all'immobilità e all'equilibrio, ogni volta attraversate appena da una scossa minuscola.
Zero virgola uno, e non zero contro uno. La svolta del film (il ri-scambio riparatore) viene sigillato da una foto di gruppo: lo schermo si immobilizza, e subito dopo riparte il movimento. Di fatto, è come se virtualmente questo succedesse a ogni scena e ogni inquadratura. Raramente dai tempi di Pioggia nera (1989) di Shohei Imamura un film era andato così a fondo nel costruire una prospettiva di azzeramento affinché sulla sua superficie possa rinascere una qualche forma residuale di vita.
Lo si dice da decenni: il cinema nipponico dopo Hiroshima è legato a doppio filo (dai mostri di Honda a Tetsuo e oltre) all'idea della catastrofe e della mutazione oltre l'umano. In Giappone, oggi, nessun cinema dà conto di questo orizzonte postumano altrettanto bene di quello umanissimo di Koreeda, specie in questo suo ultimo capolavoro dove a venire messo fuori asse è il più piccolo livello di mutazione possibile: la patrilinearità.