Fantascienza, Sala, Sentimentale

LEI

Titolo OriginaleHer
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata126'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Los Angeles, futuro prossimo. Theodore, un uomo che ha rotto con la moglie, acquista un sistema informatico di nuova generazione progettato per soddisfare tutte le esigenze dell’utente…

RECENSIONI

Visti per anni, dalla Critica, con sospetto e spocchia (nei migliori dei casi), i registi provenienti dal videoclip che fecero grande questa forma espressiva (gli anni Novanta, l'epoca d'oro) sono oggi certezza indiscussa. David Fincher, Michel Gondry, Jonathan Glazer, Mark Romanek, Mike Mills, Spike Jonze (tanto per rimanere ai casi più eclatanti, ma tanti altri potrei nominare, meno costanti e più sporadici - da Tarsem a Sigismondi, da Åkerlund a Kahn, fino a Roman Coppola -), i famigerati videoclippari (orrore!) oggi sono considerati  cineasti di rilievo, salvo da quei recensori che hanno le pigne nel cervello e prosciutti interi davanti alle palle degli occhi (griffe patetiche, fedeli a un marchio, ancorate a un'idea di purismo vera come la loro buona fede, che hanno cresciuto una generazione di cinefili - orrore autentico: critici di domani o già dell'oggi - che non sanno dire nulla di un film, ma sanno sempre che voto dargli [1]): il background di questi autori, come per magia, lungi dal continuare a costituire una tara, si è trasformato in un valore aggiunto che garantisce un know-how tecnico e la conseguente sicurezza di ottenere un risultato produttivo. Quello che nessuno fa notare (forse perché è un dato decisivo, ed è oramai prassi dire solo il superfluo, ché delle cose rilevanti non si sa cosa farsene) è che costoro hanno imposto una filosofia cinematografica che non si è limitata solo a un innovativo discorso visivo. Che, insomma, l'Oscar alla sceneggiatura conferito a Spike Jonze è La Grande Vendetta Dei Clippari che si consuma a freddo e pubblicamente, il riconoscimento a un contributo di ideazione e concezione e non solo, come la vulgata imponeva, immaginativo e cinematico. Eppure non è così strano che dopo Gondry (che fu oscarizzato anch'egli per la sceneggiatura di Eternal Sunshine, anche se in condivisione), ancora una volta l'Academy premi la scrittura di un videomaker: pochi altri, come i registi di videoclip sono consapevoli che ogni singola immagine deve essere pienamente significativa, deve catturare l'attenzione ed essere esplicativa di per se stessa; pochi altri, come loro, sanno parlare direttamente all'occhio dello spettatore maneggiando l'Emozione. Di più: nessun altro, come i vituperati clipparoli, è al corrente di cosa sia la Contemporaneità, in quali forme si esprima, come la si trasformi in materia empatica. Il fatto poi che, fin dall'inizio, sia Gondry (Human Nature ed Eternal Sunshine) che Jonze (Essere John Malcovich e Il ladro di orchidee) si fossero rivolti al nuovo prodigio della sceneggiatura americana, Charlie Kaufman, la dice lunga circa il rilievo che questi registi riconoscono alla scrittura (non ci sorprende, allora, che Jonze a Roma, Festival 2013, confessi che, finito lo script di Her, l'abbia fatto leggere per primo proprio a lui). Che poi Gondry, per esempio, non fosse soltanto un geniale inventore di figure e una fabbrica di trovate visive mirabolanti e a getto continuo lo dicevano (a chi aveva le 'orecchie' per intenderlo, ovviamente) già le sue strutturatissime clip (e lo hanno ribadito i suoi film post Eternal, scritti interamente da lui), che Mike Mills, per dire, sia uno sceneggiatore sopraffino lo ha ricordato un film  come Beginners -  titolo sottovalutato se ce n'è stato uno -, ma un occhio privo di pregiudizi, buttato alle cose che aveva fatto prima, avrebbe reso la scoperta meno sorprendente. E Jonze? Che abbia una testa lo scopre oggi chi del suo ieri non si è mai curato. Eccetera.

[1] E' nero su bianco (si parla anche di carta stampata - e di roba che canta non solo quotidianamente -) il modo vergognoso in cui uno dei film più rilevanti della stagione (io dico di un intero lustro, ma va bene, sono Cassandra e amen), Under the Skin di Jonathan Glazer, presentato a Venezia - sia stato trattato dalle testate italiane, anche quelle che passano (ancora) per prestigiose. Adesso che sono note le tendenze della critica internazionale riguardo a quel film  (stellette a formare galassie, Sight&Sound che gli ha appena dedicato la copertina...) sappiamo che seguirà l'abusato copione della marcia indietro. Questa nota valga come promemoria. Siamo pronti a distribuire fotocopie (che cantano come gli originali).

Ciò detto occupiamoci di Lei che non si fa in tempo a sgretolare un luogo comune (clipparoli mezzeseghe), che subito se ne compatta un altro (vedremo quale). Va detto subito che Jonze non è soltanto uno dei più grandi videomaker di sempre (è in quella che nella mia testa chiamo la Suprema Cinquina), ma è stato letteralmente un uomo-svolta le cui intuizioni (in tutti i campi in cui si è espresso), dai Novanta ad oggi, hanno terremotato la cultura di massa, una svolta della cui effettiva portata soltanto negli ultimi tempi si è assunta piena coscienza (il senno di poi è una scienza esatta, notoriamente). E il frutto di questo tardivo quanto inevitabile riconoscimento lo si vede anche nel rispetto quasi sacrale con il quale la campagna promozionale di questo film è stata accolta, con tutta la fanfara di cui solo i capolavori annunciati possono godere.
Fedele a un'idea che è quella che tiene insieme buona parte della sua (scarna) filmografia e il (polposissimo) resto, Jonze porta avanti il suo discorso su un avvenirismo che è risvolto di una riflessione sull'oggi, paravento sottile da cui si intravede l'essenza profondamente umana del discorso. Il dato futuristico (che si traduce in questa cosa che possiamo definire una sci-fi romantico- drammatica, una fantascienza dell'anima, una distopia esistenzialista, fate voi, e che poi è la stessa frequentata da Kaufman e da Gondry, altri che cavalcano lo spleen servendosi di armamentari di genere - tutti figli dei film paradossali e filosofici di Resnais, l'ho detto più volte e lo ripeto qui -) serve solo a mettere in evidenza, in un modo trasversale, elementi che attengono all'interiorità, all'intimo, alla sentimentalità, che è ciò che gli interessa e che sono il punto focale della faccenda. E qui apro una parentesi.

Parentesi

Le menate su quanto sia o meno in ritardo sui tempi questo film non trovano asilo in questa recensione e per un motivo molto semplice: non attengono al film. E se attenessero al film (cosa che non è), non tengono conto dell’intera produzione del Nostro, che opera dai Novanta (sono vent’anni, due decenni, dico: quattro lustri, ok?): credo si sia tutti d’accordo che Jonze non possa fare, a chi non ha seguito le puntate precedenti, un riassunto della sua situazione artistica, giusto? Non può dire certo: ragazzi, se parlate di queste cose, se il vostro ragionare è trasversale è perché su questa strada ci ho condotto una generazione e, scusatemi, ma nessuno può venire a insegnarmi niente, giusto? Siccome queste puntualizzazioni non le può fare (né gli interessa, c’è da giurarci) consegna un film (Her, quello di cui parliamo) che si vorrebbe venisse giudicato per quello che è, non per essere messo a confronto con la fatidica puntata di Black Mirror di cui tutti cianciano in questi mesi (mesi, dico mesi, mentre qui si parla di vent’anni, due decenni, dico: quattro lustri, ok?). La questione non sta in questo né in quanto Her sia un film veramente originale (non esistono film tematicamente originali), anche perché di riferimenti ce ne sarebbero a iosa: a parte tutta una letteratura che non andrei a scomodare, si pensi a Electric Dreams - commediola anni 80 famosa più per la canzone di Moroder cantata da Phil Oakey - che già metteva sul piatto la questione; e questo senza scomodare il Joshua di Wargames o Numero Cinque di Corto Circuito - o, meglio di tutti, Deeper Understanding (mi raccomando, ora, tutti a postarlo - siate previdibilissimi - e a dire la cosa sbagliata) il video di Kate Bush del 2011, diretto dalla stessa cantante, di cui avevo scritto nella mia rubrica, e che rivisto alla luce di Her, insomma, altro che Black Mirror… -). Ma il punto ripeto, non è questo, perché il film si valuta in sé, non in confronto ad altri prodotti che quella cosa l’hanno detta due giorni o trent’anni prima (vi dirò, allora: anche questa cosa dell’amore e della relazione a due è un tema un tantinello sfruttato). Se dite che questo film non cavalca alla perfezione i tempi e arriva tardi state valutando i tempi e non il film, cioè voi guardare dito e no luna, invece voi dovere guardare luna no dito. Se poi piacere dito ok, ma qui parlare di luna.
Che poi il modo in cui Her  guardi al dilagante solipsismo, interroghi la Contemporaneità, la nostra era anestetizzata - l’alienazione del nerd che è in noi e che non fa altro che specchiarsi - sia da considerarsi fuori tempo massimo è tutto da dimostrare, perché è esattamente il modo che ha fatto sì che l’opera toccasse molti, è il modo che ha fatto del film un terreno di riconoscimento comune (cosa che non ha fatto, per esempio, il video di Kate Bush o Electric Dreams o la puntata di Black Mirror - che c’entra fino a un certo punto - e di cui, non a caso, sapevano in quattro gatti - tra i quali mi pregio di non essere compreso - e di cui si è cominciato a parlare dopo Her), dimostrazione finale che non serve dire le cose per primi, serve essere capaci di comunicarle. E Jonze lo sa fare meglio di (quasi) tutti.
Ma non inizio questo discorso (anzi, lo avrei finito), anche se cominciava a divertirmi (e infatti, per questo tono scomposto che ha assunto, lo metto tra parentesi, voilà). Le menate di cui sopra non attengono all’analisi di Her per questo e per tutto quello che  scrivo nella recensione, alla quale vi rimando, dunque, in tutta fretta. Come non attengono le menate (puntualmente evitate dal sottoscritto, infatti) su Girls vs. Frances Ha di Baumbach di cui non fa conto parlare (solo farvi cenno: fatto). Piedi per terra, ragazzi. Siamo seri, i discorsi sull’attualità-a-tutti - i-costi lasciamoli alla brutta televisione, quelli sull’originalità ai pescatori di pietre in Arno. Chiusa parentesi, torniamo al punto: il film.

La strategia del futuro (che è poi un presente esasperato o una leggera anticipazione di un tempo da venire), come velo che lascia distinguere altro (il fragile umano), opera a tutti i livelli; si guardi in questo senso al lavoro sull'art direction e sui costumi: tutto è studiato per dare un'impressione di non convenzionalità, ma nulla è portato alle estreme conseguenze, tutto è più o meno 'possibile'. Basta un deciso, strategico lavoro sui colori (i pastelli), bastano pochi dettagli sul vestiario (i pantaloni a vita altissima, come moda del momento), basta l'eliminazione delle fantasie per un integralismo cromatico a  tinte unite (certi rossi, certi arancio, certi gialli) per creare un immaginario peculiare e che lo spettatore riconosce come tale, per creare un mondo (creare mondi è quello che Jonze cineasta ha sempre fatto) che è realmente irreale (o viceversa) e che mantiene tutto studiatamente nella dimensione del plausibile. In questo mondo (si noti come funzionano gli ambienti), la tecnologia avrà anche un ruolo rilevante, ma non invade platealmente il contesto (costituisce un presupposto: lo notiamo dal modo in cui i protagonisti si muovono e da quello che fanno, è una questione di software, insomma, più che di hardware); c'è una chiara volontà di mantenere la scenografia lontana da un immaginario fantastico codificato, e coerente, invece, con l'alienazione moderna di cui sopra (esagerandola di una sola tacca). Her, insomma, non ci parla del possibile sviluppo della scienza tecnologica, non ci parla dell'Avvenire (non più di quanto il film Casablanca parli del Marocco, per dire): ci parla dell'uomo. Di un uomo. Di Theodore.

Il modo in cui il film si ripiega sul suo protagonista come personaggio alla deriva, il fatto che induca ad un'immedesimazione con Theo, fa pensare a lui come a una persona che sta subendo ingiustamente le sorti di un destino amoroso avverso. In realtà il fatto stesso che costui intraprenda una relazione con un Sistema Operativo è la dimostrazione di un problema preesistente, problema che è stato parte integrante delle motivazioni che hanno portato Catherine a mollarlo. L'incontro con la donna, per la firma dei documenti del divorzio, ha in questo senso un valore agnitivo: Hai sempre voluto una moglie senza il problema di dover affrontare la realtà. Theo è solo perché non sa gestire il rapporto a due; Theo si proietta sugli altri (il suo lavoro di compositore di lettere) per non guardare a sé, vive illudendosi, e la virtualità costituisce la via di fuga maestra dalla propria inadeguatezza relazionale: è la sua autodifesa.
L'inesistenza di Samantha è quanto cerca e lo rassicura: non a caso, persino l'ipotesi dichiarata di un corpo-simulacro (quello della ragazza che si offre come tramite carnale) è vissuta come un ostacolo. Theo non vuole il corpo dell'entità che si illude di amare, non vuole una relazione con un essere umano: se è vero che il sesso non è carne, ma desiderio, Theo pretende esattamente quello che ha, una masturbazione che inventi la presenza di un'altra persona nella consapevolezza che questa non è lì; la relazione con un'idea, una persona che non esiste, una proiezione- donna (Samantha è la sua parte femminile, quella a cui fa riferimento il suo collega in un passaggio dialogale  fondamentale - e quindi mediamente sottovalutato: tu sei metà uomo e metà donna -, una parte di sé che va a titillare. Di più: è un programma che è plasmato su Theodore; estremizzo: è Theodore. Lei è Lui).

Allora la relazione tra l'uomo e l'OS non pone alcun tipo di scambio, è drasticamente unilaterale. è puro onanismo. Se è vero che il legame amoroso svela all'innamorato un mondo, questa relazione non svela nulla a Theodore: il mondo messo in gioco è solo suo ed è quel mondo (il suo) che fa in modo che Samantha conosca. Perché? Perché sia ancora lui a immedesimarsi nello sguardo vergine dell'OS su quel mondo, perché possa rigoderne attraverso l'entusiamo da neofita di Samantha, perché lui stesso possa interpretare quella entusiasta verginità dell'occhio. Fingerla. L'immaterialità di Samantha non è affatto un handicap, è tutt'altro che una mancanza, per il protagonista è un presupposto necessario, poiché Theo gode solo di sé. Nessuna donna potrebbe dargli quello che gli offre l'OS: conosce tutto quello che fa e ha fatto, legge le sue mail prima di lui, sa meglio di lui ciò che gli è utile, cosa può essere cestinato, è ripiegato  totalmente sulle sue esigenze. Soprattutto: Samantha c'è sempre quando lui vuole ci sia; è uno stare assieme che non presuppone stress o attese. E' una presenza che, brutalmente, può accendere e spegnere a piacimento (di qui l'incubo - proprio della dipendenza - che consegue a scoprire il programma in aggiornamento con il conseguente  terrore di aver perso la sua interlocutrice). Di più: è uno strumento al suo servizio, che è come è perché l'ha voluto così (donna) e per il quale ha pagato (dettaglio che non trascurerei). A Theo piace pensare di amare Samantha, ma non è così. Perché? Perché l'amore trasfigura e qui di trasfigurazione non c'è la minima traccia, anzi l'uomo ha la garanzia di rimanere saldamente quello che è, di non mettersi in gioco, di ridurre il meccanismo relazionale a uno schema spettrale, di pura, perversa superficie, fatto di semplici azioni, di futili rituali, senza alcun investimento interiore (non c'è Altro su cui investire), in cui il Desiderio, fine a se stesso, è il trionfo della solitudine e Samantha - abisso che risucchia ogni possibile metafora e simbologia di cui l'innamoramento generalmente si nutre, per ridursi a una mera funzione - è vuota figura pornografica sulla quale sfogarsi, consolatoria voce-feticcio.

Come scrive Giulio Sangiorgio su Film Tv:
Lei, in originale Her; è un complemento oggetto.

Come canta Umberto Tozzi:
è tutto quello che vorrei/ è Lei. (...)
Lei/ che sa inventarti come sei
(Lei,
Umberto Tozzi, 1994)

Non a caso la svolta si ha quando Samantha, svelando la propria realtà (il proprio mondo, quello che non era mai entrato in gioco) e quindi il suo essere in contatto con altre persone, mette a confronto Theodore con un dato oggettivo, non controllabile e non negoziabile con la sua rassicurante fantasia onanistica, un dato non più ignorabile una volta presane conoscenza, non occultabile con le illusioni, quello che lo riporta, senza pietà, al suo essere solo con se stesso dichiaratamente, dissipando la sua programmata allucinazione, quella che faceva di Samantha una compagna-amante reale e della moglie, quale ricordo comodo e finalmente immateriale, un fantasma romantico. E a tal proposito i ricordi in flashback della moglie, che intervengono a tradurre in maniera istantanea una sensazione del protagonista (secondo una modalità che viene direttamente dal videoclip, tra l'altro) e tendono a essere una sorta di campionamenti soggettivi dell'esperienza, non sappiamo quanto siano reali, non sappiamo quanto possano dirsi davvero condivisi con la realtà della persona che vi appare (il passato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi, del resto).
E allora? Allora Theodore non è un essere tenero, ma disumano per come decide di gestire il suo malessere, più gelido della macchina con la quale si va a relazionare, le sue stesse parole, del resto, sono programmate, visto che l'utilizzo posticcio degli stati d'animo e delle emozioni è un automatismo di cui si serve nel suo mestiere (Theodore scrive lettere per altri, 'vive', quale interposta persona, i loro drammi), un uomo che non ha niente di romantico, come non c'è niente di romantico in Her, che è un film, al contrario, di rara desolazione e il cui finale (Theodore scrive finalmente una lettera non per altri, ma per sé, indirizzata alla ex moglie) - nota che frettolosamente fa cambiare di segno il protagonista - appare una scivolata un po' mielosa e decisamente facile.
Il che ci porta a un altro punto: la scrittura.

Her è un film di scrittura fragile e di durata punitiva: la verità è che da sempre il Jonze cineasta non sa gestire il minutaggio; perfetto nel piccolo formato (si vedano i bellissimi corti, non solo i videoclip), Jonze dimostra una certa incertezza  quando deve giostrare la storia in un arco di tempo più ampio. Non c’è uno solo dei suoi film che non lamenti dilatazioni e lungaggini (e il massacro produttivo del suo precedente Nel paese delle creature selvagge, un capolavoro mancato, in qualche modo nasce dallo stesso problema), si figuri in un film in cui tutto si fonda su un unico personaggio in relazione ad un altro, peraltro invisibile (centoventiseiminuti, non una passeggiata).
Riconosciuta allora al regista l’indubbia intelligenza nella gestione di un’idea - che rimane una e una soltanto, anche se declinata in tutti i modi possibili -, attestata la lucidità con la quale affronta e considera ogni implicazione la storia fa germinare, il problema del film risiede nel ristagno dei tempi, nella debolezza di molta dialogistica e nella delineazione del personaggio di Samantha. Quest’ultimo è un carattere troppo malleabile, troppo adattabile, in definitiva troppo comodo: la sua mancanza di rigidità diventa, paradossalmente, un limite narrativo proprio perché rende possibile qualsiasi adattamento risulti necessario ad assecondare il percorso del protagonista maschile. La tecnologia che la sovraordina aderisce pedissequamente alle evoluzioni della storia e le sue caratteristiche si modificano a seconda delle esigenze che lo script manifesta. Questa comodità è evidente e palesa l’immaturità di Jonze sceneggiatore rispetto all’acutezza di Jonze soggettista (è quest’ultimo che ha vinto l'Oscar).
Her, pur distante anni luce dalle carinerie del cinema indie che funestano da lustri il cinema americano, stando gli onori, i clamori, le lodi sperticate e già esagerate, che ne hanno invaso il campo, è allora un film che sta facendo di Jonze l’ennesimo, travisato santino neochic (il nuovo luogo comune da sgretolare di cui sopra - chiosa -). Anche se il regista, con la scena della canzone (The Moon Song), che è un plateale rivolgersi al pubblico, gli manifesta la consapevolezza della sua capacità di manipolarlo (anni di videoclip sulle spalle) e, con un’onestà che merita rispetto, anche se non leggibile a un primo sguardo, in fondo confessa di aver girato un film più elementare e più trasparente di qualsiasi video abbia mai concepito.

Spike Jonze, anche sceneggiatore, è ossessionato da storie vissute, a vario titolo, nella mente dei protagonisti. In questo caso va oltre: il virtuale è realtà. Perché la realtà non esiste, non c’è differenza fra ciò che è reale (le “vere emozioni” che l’ex-moglie rinfaccia al protagonista) e ciò che percepiamo come reale, oltre le frontiere dei pregiudizi. La morale del racconto non è alla Andrew Niccol (“Siamo tutti simulazione”: S1m0ne) e l’opera non è distopica (girata a Shanghai per rinvenire la Los Angeles del futuro), non denuncia la perdita dell’anima nella tecnologia: fatte le prove generali nel corto I’m Here (storia d’amore di un robot), Jonze fa l’esatto opposto, in linea con la fantascienza umanistica che dona vita alle intelligenze artificiali ma oltre, disquisendo di relazioni sentimentali che prescindono dalla forma biologica. Theodore gestisce i sentimenti a distanza, con filtro, scrive lettere d’amore per gli altri, è stato lasciato dalla moglie perché inabile nel mettersi a nudo, allontana una donna di carne di fronte alle prime imperfezioni e preferisce la perfezione di un sistema operativo: nessun giudizio sottostante, Jonze ne prende semplicemente atto e, lontano da banalità sulla Donna Esplosiva, rende coinvolgente e credibile una storia d’amore con una voce (andrebbe visto in originale: il timbro sensuale, roco, ridente di Scarlett Johansson è imprescindibile; la nostra Micaela Ramazzotti non può eguagliarlo). Sull’amore impossibile, i dubbi del protagonista sono quelli dello spettatore: non è casuale, però, che Theodore si disincanti solo quando il senso di colpa viene instillato dalla ex. Ciò che conta, dice in realtà Jonze (e l'amica di Theodore interpretata da Amy Adams) è ciò che ci rende felici, ed è gioioso questo futuro dove l’essere di carne interagisce con Sistemi Operativi o buffi alieni da videogioco (lo scurrile ometto, che pare un pupazzo di neve, è doppiato da Jonze stesso). Nel finale (William) gibsoniano, l’autore ribadisce che è un amore vero, perché figlio di una scelta, perché Lei è sempre Lei.