Biografico, Recensione

SAVING MR. BANKS

Titolo OriginaleSaving Mr. Banks
NazioneU.S.A./ Gran Bretagna/ Australia
Anno Produzione2013
Durata125'
Montaggio

TRAMA

La scrittrice Pamela Lyndon Travers arriva ad Hollywood da Londra per incontrare Walt Disney e discutere della trasposizione cinematografica del suo romanzo Mary Poppins. La donna non è disposta ad accettare alcun compromesso.

RECENSIONI

Saving Mr. Banks coniuga operazione e intrattenimento, risucchiandoli in una vertigine: il film disneyano che ragiona sul film disneyano e in cui - per supremo avvitamento - lo stesso Walt Disney diventa personaggio disneyano, la sua epitome finale. In questo senso (quello disneyano, appunto) è un'opera che gioca come poche con i sentimenti dello spettatore, intrappolandolo con maestria tutta hollywoodiana in un percorso che lo conduce implacabilmente alla commozione: lo fa nella maniera classica, attraverso l'efficace uso dei tempi e sviluppando in gradi calcolati il processo di immedesimazione col personaggio principale, la scrittrice Pamela Travers (Emma Thompson, splendidamente in parte). Così, se è innegabile che la narrazione in flashback sia dilatata e senza ritmo, è vero però che la sua svenevolezza deve fungere soprattutto da didascalia, avendo il compito di tenere alta l'attenzione sul livello principale. Anche questo obiettivo viene raggiunto con gli strumenti oliati dell'entertainment, grazie a una gestione del personaggio di Colin Farrell molto misurata nel suo implacabile e continuo cambiamento di segno. Ma c'è di più: Hancock, facendo di quel filo narrativo una favola prima amena e poi gradatamente tragica, ottiene, come ulteriore risultato, quella cercata decodifica leggibile e, in un'ultima analisi, disneyana anch'essa, di una delle principali figure dell'immaginario Disney in real action (Mary Poppins, appunto).

Saving Mr. Banks è allora un film che da un lato intrattiene superbamente (il ping pong tra la Travers e Disney è impeccabile), dall’altro non teme, per quel sottile sottotesto teorico che lo attraversa, di svelare il suo meccanismo (la decrittazione del film con Julie Andrews) sdoganandolo - e qui sta il principale merito del lavoro - attraverso la sua drammatizzazione e messa in forma di spettacolarizzazione ulteriore (si pensi alla sovrapposizione dell’audio di Mary Poppins alle immagini dell’infanzia di Pamela, nel finale, per rendere l’esperienza emotiva della donna). In questo intrecciarsi di motivi (sui quali gioca un ruolo di sintesi il transfert tra i due protagonisti che permette la lettura retrospettiva dei caratteri attraverso la figura incombente del Padre) suona particolarmente pregnante il gioco coi feticci disneyani e la loro invasività (i pupazzi nella camera d’albergo della scrittrice, il parco di Disneyland, il Mickey Mouse messo in castigo in un angolo, l’arrivo alla prima a braccetto col topo a dimensioni reali) come resoconto metaforico del modo pervasivo e sostanzialmente “buono” col quale quel mondo si è imposto su generazioni e generazioni (la Travers contesta la logica del mondo disneyano, che tende a edulcorare tutto - basta un poco di zucchero… - fino a quando, in lotta coi suoi fantasmi, non arriva ad abbracciarlo proprio in base alla filosofia del guru Walt, ovvero rimettendosi alle sue rassicurazioni - la scena primaria in cui il pupazzo di Mickey Mouse, viene recuperato e portato a letto -).

Saving Mr. Banks è film che, in definitiva, non nasconde i suoi elementi. Non solo è evidentemente concepito a blocchi (il rapporto tra la Travers e il team che lavora all'adattamento del romanzo; le schermaglie con Disney; il feeling con l'autista - che è il pubblico dei lettori -; tutta la parte australiana), ma è anche scoperto nell’utilizzare, a un secondo livello, i tratti caratteristici di Mary Poppins (come quest'ultimo, Saving Mr. Banks non è un musical, ma in esso si canta; non è un film animato, ma ha una scena in animazione - Disney e Campanellino -; è una favola, ma dice cose serissime) proponendosi come apologo sul mito Disney che, piegando la realtà alle sue regole, la riscatta, facendone parabola vera.
Stranissimo oggetto, dunque: un'opera vecchio stile che miscela alla perfezione dramma e commedia e che però, contraddicendo la traccia classica, continua a dire altro: di una strategia, quella disneyana, talmente sicura di sé da non temere di svelare la sua formula, di mettersi a nudo, facendo di questa rivelazione l'oggetto di un'ulteriore (disneyana al cubo) dimostrazione di forza fantastica.

Dopo Hitchcock di Sacha Gervasi e Marilyn di Simon Curtis, un altro film che racconta il dietro le quinte della lavorazione di un film noto, fra biografia (con molte libertà) e autocelebrazione della macchina-cinema: si narrano sia la genesi della serie di libri della scrittrice, raccontandone il background (inserti continui su infanzia e rapporto con il padre), sia la difficile gestazione dell’adattamento del papà di Topolino. A vario titolo affiliato, sin dall’esordio cinematografico, alla casa Disney (che produce e, ovviamente, si autoincensa), John Lee Hancock traspone nel modo più accademico la sceneggiatura di due esordienti su grande schermo, perdendo l’occasione di richiamare le commedie sofisticate con Katharine Hepburn (il personaggio di una magnifica Emma Thompson, indurita scontrosa ma di cuore), quel tipo di scontro di caratteri, quell’amabilità nella risoluzione dei conflitti. Lo script è sagace, capace, arguto, a suo modo profondo: aggancia gli umori di P.L. Travers ad eventi della sua infanzia che gettano nuova luce, raccontando anche la motivazione dell’attaccamento della scrittrice alla propria creatura di fantasia e arrivando alla rivelazione che spiega il titolo. Gli attori poi, fra commedia feroce ed impronta amabile, sono inappuntabili in un’edulcorazione di retroscena amari (l’infanzia tremenda, la bellicosa lavorazione sul copione) che contraddice, per quanto ‘necessaria’, ciò che desiderava la scrittrice nei confronti della sua creatura. Il peccato originale è un altro: la malferma esposizione dei due punti di svolta che portano l’inamovibile protagonista a smussare le spigolosità. Uno passa per Disneyland, e non è dato sapere cosa faccia cantare e ballare P. L. Travers con gli autori del film che fin lì aveva osteggiato; l’altro avviene a casa sua a Londra, sfumando nel deleterio pistolotto con cui Disney la convince con concetti interessanti e rivelatori esposti in modo grossolano. Due parole incisive dell’interlocutore e una donna solida come una roccia, per anni convinta del contrario, cambia idea: un espediente che ammanta tutta l’opera nei modi manieristicamente hollywoodiani di esporre le scene, puntando più all’estorsione di risposte nel pubblico che alla credibilità delle dinamiche della scena stessa. Rientra in questa casistica anche la sequenza della prima del film a Los Angeles, dove Hancock inquadra le reazioni di Emma Thompson: ci si commuove alle lacrime ma è un ladrocinio.