TRAMA
Il clan dei Takeda rimpiazza il proprio defunto condottiero con un sosia, per ingannare i nemici.
RECENSIONI
Dopo dieci anni di “esilio”, Akira Kurosawa torna a girare in Giappone, anche grazie al contributo di due fan illustri (Francis Ford Coppola e George Lucas: produttori esecutivi) e ottiene un gran successo (Palma d’oro a Cannes, ma ad una versione di tre ore scomparsa nelle sale) riavvicinandosi al genere “jidaigeki”, epico e mitico. È un poema medievale (notevole il piano sequenza in apertura) che assume le tinte d’una tragedia shakespeariana mediata dal Teatro No, vale a dire senza troppi crucci ed analisi psicologiche: i personaggi sono le pedine d’una parabola storica segnata dall’ineluttabilità della fine, d’una leggenda dove i ruoli sono marcati e spersonalizzati, tipici cioè della tradizione letteraria e teatrale nipponica, che si rifà a simboli e colori. La materia, infatti, è pittoricamente stilizzata (fonte di ispirazione, anche ‘Le tre battaglie di San Romano’ di Paolo Uccello) sono accentuate le tinte corrispondenti allo stendardo del condottiero: il rosso, il verde, il blu e il nero giocano con la luce del sole durante le battaglie, dove la morte è compiuta (secchi di sangue rosso sparsi su mucchi di cadaveri), non è mai filmata nell’atto di violenza. Questa ricerca cromatica trova la propria summa negli splendidi fondali del sogno del Kagemusha (che significa “sosia”): si riaffaccia la tematica pirandelliana di Kurosawa sull’identità, sulla verità e le sue sfaccettature, in una pellicola che a volte s’arena nelle rifiniture, nelle ripetizioni, nei particolari e nelle precisazioni di un pittore che ha perso di vista la meta del proprio soggetto. Il successivo Ran è il vero capolavoro (lo stesso regista ammise che Kagemusha era una sua ‘prova costumi’), un’opera dove ci si getta a capofitto nell’astrazione estetica della battaglia e non ci si smarrisce fra le maglie di un racconto prevedibile. Con il “Kagemusha”, Kurosawa vuole anche rileggere la storia dell’unificazione del paese, affiancando alla figura del condottiero Shingen Takeda quella, sconosciuta, d’un uomo d’estrazione popolare (un ladro che, generosamente, porterà la croce dell’annullamento del proprio Io): perché la Storia non è retaggio dei soli potenti. Il Kagemusha è anche il simbolo degli spettri che intimoriscono gli uomini e lanciano moniti.