TRAMA
Nell’America prostrata dalla Grande Depressione, anche una maratona di ballo all’ultimo sangue è occasione per racimolare soldi.
RECENSIONI
Così si uccidono i cavalli già azzoppati, prostrati da una lotta spietata per la sopravvivenza, gettati in un'arena con l'unico miraggio del denaro, da tempo induriti e disillusi, spettatori vagabondi del sogno in cui erano animali liberi e selvaggi lanciati in corsa nella prateria. La Grande Depressione del sogno americano non è solo economica ma anche esistenziale, diventa disperata quando realizza che la corsa non vale la biada né l'amor proprio, che si è pedine di un cinico spettacolo del Grande Fratello, un demagogo che ci ricatta, che cavalca con retorica la nostra sofferenza, per darci in pasto ad un pubblico pagante, affamato di dolore altrui per catarsi propria. Il ballo in cui ci conduce Sydney Pollack (subentrato allo sceneggiatore James Poe al timone di regia) è estenuante, il suo microcosmo allegorico è votato all'autodistruzione quando anche gli ultimi sognatori danno forfait nella follia (Susannah York), nella disillusione (il mare non ha più alcuna attrattiva per Michael Sarrazin), nello sconforto (Jane Fonda). Bonnie Bedelia incinta canta "The best things in life are free" perché lo show deve andare avanti, incurante di chi perde o vince, indifferente alla verità dolorosa che, come al cinema (rappresentato dal regista hollywoodiano Mervyn Le Roy fra gli ospiti d'onore) è bandita, non fa audience ("È troppo vero", non ci faccio i soldi, dice Gig Young), è solo un altro finale da osservare impassibili, fra i tanti possibili. Pollack gioca magistralmente con il non detto, i silenzi eloquenti, i giochi di sguardi (magnifici quelli fra Young e York sotto la doccia) e un inusuale flash-forward. Tratto dal romanzo di Horace McCoy.
