TRAMA
Tre giovani, due ragazzi e una ragazza travestita da maschio, partono dal Guatemala e attraversano il Messico per raggiungere gli Stati Uniti. A loro si unisce un indio che parla un’altra lingua.
RECENSIONI
Giovani (aspiranti) migranti vogliono oltrepassare un confine, devono trovare un passaggio: non sappiamo perché, le motivazioni non vengono mai esposte, la migrazione è semplicemente mostrata. Il movimento dal Guatemala, attraverso il povero Messico e fino al sogno americano, è un road movie composto di inquadrature sgranate e traballanti, camera a mano, pedinamento realista dei personaggi. Una donna 'diventa' uomo per confondere l'autorità ma, come in Offside di Panahi, è un travestimento solare e perdente. I quattro intavolano un percorso non lineare che diventa countdown umano a eliminazione (quattro, tre, due...): sulla strada irregolare si incontrano disperati, trafficanti di uomini, religiosi, poliziotti violenti a difesa di una frontiera armata. Il racconto è totalmente imperniato sull'ambizione del Confine, presentato in modo frontale e fuor di metafora (c'è una linea da varcare, un tunnel da percorrere: quello è l'obiettivo). Allo stesso tempo sfiora generi diversi, dall'ipotesi sentimentale iscritta nel triangolo (la ripresa del ballo), alla questione gender che impone un'inversione biologica anche solo per scappare, al thriller sociale con sottinteso rovesciamento, i clandestini/buoni inseguiti dalle guardie/cattivi.
Elementi archetipici per l'ennesimo esercizio di cinema migrante, tanto scoperto quanto convenzionale, che non possono spiegare il successo dell'esordio di Diego Quemada-Díez (premio Un Certain Talent e premio Gillo Pontecorvo al Festival di Cannes). Piuttosto bisogna guardare al congegno linguistico, allo spagnolo e l'indio che parlano fra loro ma non si capiscono. L'idioma di Chauk non viene tradotto, favorendo dunque l'assunzione della prospettiva dei giovani guatemaltechi: come loro non intendono il compagno di viaggio, così anche chi osserva resta invischiato nell'incomprensibilità reciproca (con evidente implicito rimando alla geopolitica sudamericana). Inoltre, la sceneggiatura a sei mani manipola con inedita crudeltà i destini dei protagonisti, in particolare l'uscita di scena: uno ad uno, spietatamente, questi vengono 'eliminati' dagli accidenti di una strada troppo impervia (una tratta di donne, un cecchino al confine) e non si recuperano più. Meglio prendere atto dei limiti, come la figura di Samuel, rilevare l'impossibilità del movimento e tornare indietro per non finire bersagli futuri.
Storia di più confini (umani, linguistici, sessuali, politici), corsa a perdifiato al di là della linea, La jaula de oro è la cronaca di una scommessa senza ritorno nella contemporaneità, migrare per restare vivi oppure morire, fuggire da una gabbia per sbattere contro altre sbarre, ritrovarsi ancora beffati. Il dispositivo di Quemada-Díez funziona a tratti, soffre per gli automatismi narrativi (il dualismo etnico è, alla lunga, uno schema), i segni sfacciati (l'apparizione della bandiera americana) e la facile tendenza poetizzante (l'arrivo della neve). Senza soffermarsi sulle prevedibili tappe del rapporto Juan/Chuak, dalla diffidenza alla solidarietà, né sulla smaccata critica etica che equipara l'autorità ai criminali, caratterizzandone l'operato con eguale violenza. Finale pericolosamente simbolico, con l'unico migrante superstite che raccoglie scarti di macelleria. Dieci e lode alla distribuzione Parthenos che presenta il film, finalmente, in versione originale con i sottotitoli.