TRAMA
1972: una squadra sudamericana di rugby, con relativi parenti, si schianta con l’aereo sulle Ande. Alcuni di loro, salvi per miracolo, devono fare i conti con la fame ed i soccorsi che non arrivano.
RECENSIONI
A venti anni di distanza dal fatto realmente accaduto e che fece molto discutere, Frank Marshall e John Patrick Shanley (sceneggiatore) portano sullo schermo quest’odissea tragica e prodigiosa in cui i superstiti furono costretti al cannibalismo. Basandosi, però, sulle testimonianze di un’esperienza (anche) mistica, preferiscono fare pulizia di tutti gli ingredienti più sgradevoli, dei conflitti psicologici e delle crisi esistenziali che parrebbero/dovrebbero essere le (altre) conseguenze più plausibili di un isolamento forzato di settanta giorni, senza mezzi di sussistenza. Tutto viene posto su toni ottimistici, di forza di volontà, di amore per la vita. Si resta razionali, si prega e, a turno, qualcuno prende le redini del gruppo per guidarlo. Non ci sono vera disperazione, perdita di senno, esplorazione dei lati oscuri della mente umana quando scatta l’istinto per la sopravvivenza in convivenza e interazione forzata con simili in competizione. È un tema più grande di loro, implicava troppi ripensamenti profondi sull’essere e il vivere: scelgono, di comodo, di far passare l’antropofagia in secondo piano, di (rin)negare l’Ombra a favore della Luce (la Fede, l’esperienza ascetica), di solcare la linea dell’accettabile per farla deglutire meglio ad un pubblico che non gradisce vedere urtata la propria coscienza. A questo punto, tanto valeva buttarla sulla exploitation, come fecero René Cardona (I sopravvissuti delle Ande, 1976: la stessa vicenda e con decisione “fatale” ben più sofferta) o “La Casa degli Orrori della Hammer” (episodio: “La Tredicesima Riunione”), perché è solo posticcia l’assenza di sensazionalismo, la chiamata continua in causa di Dio, la creazione di eroi colmi di buoni propositi. Da salvare, almeno, l’impressionante scena iniziale dell’incidente aereo (la migliore, nel genere, prima dell’arrivo del Fearless di Peter Weir) e l’emozione che la drammaturgia riesce a smuovere nell’arrivo finale degli elicotteri. In mezzo: solo la monotonia di 27 uomini in campeggio.