TRAMA
Il giorno del suo compleanno l’undicenne Angeliki si butta giù dal balcone e muore con un sorriso stampato sul volto. Mentre la polizia e i servizi sociali tentano di scoprire il motivo di questo apparente suicidio, la famiglia di Angeliki continua a ripetere che si è trattato di un incidente. Qual è il segreto che la piccola Angeliki ha portato con sé nella tomba? Perché la sua famiglia continua a cercare di “dimenticarla” e di tornare alla sua vita normale? (dal sito della Biennale)
RECENSIONI
Che Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari siano le guide del cinema greco contemporaneo è cosa certa. E il lavorio di una retorica del caso umano, di un mondo che si vuole in principio commedia post-tutto, è presente anche in opere di segno opposto dal loro, in opere che si vogliono marcatamente umaniste, persino sentimentali (si pensi a un film come Unfair World visto quest'anno al Bergamo Film Meeting). Come se l'obiettivo comune ai film fosse quello di minare, o di violentare, queste fossilizzazioni parodiche, questo universo di rappresentazione che non si sa prendere sul serio, questa banalizzazione del dolore ad argomento da talk show, a (dis)piacere puramente linguistico e scopico, squarciando la dimensione fumettistica, la forzatura teatrale, per trovare la dinamica dell'orrore, la materia del disagio, la ferocia della malattia. Miss Violence si inserisce chiaramente nel medesimo discorso, un discorso che non drammatizza la crisi economica e morale, ma ne fa l'allegoria frontale e sfacciata, disperata al crescere della stilizzazione, tragica perché trattenuta nella caricatura, perché lontana da un'accomodante catarsi realista. Ovvio che la famiglia disfunzionale del film sia il precipitato terribile e parodico dello stato delle cose di una nazione, uno stato che prostituisce i propri figli, che stupra letteralmente il proprio futuro, che si nasconde dietro la retorica delle buone maniere, delle belle parole. Ovvio che la gestione del sapere e la creazione della tensione esasperino e sfruttino le dinamiche di generi di consumo che sembrano non avere nulla a che fare con una tipologia di racconto come questa, dramma da camera iperrealista, porta aperta (e richiusa) sullo squallore. Ma è proprio nella strumentalizzazione esibita, nella violenza pinteriana eccitata, nel sangue colorato come in un film di Russ Meyer, nel parosissimo dell'exploitation che Miss Violence trova il suo senso politico: nel cercare marchianamente, frontalmente l'emozione tra le macchiette, nello sfruttare la spettacolarizzazione per scioccare, per imporre poi allo spettatore di chiedersi quale sia la sua posizione rispetto alle immagini del dolore.
Opere così, parenti strette del lavoro terroristico di Lars von Trier, Gaspar Noé o Brillante Mendoza, giocano con le attese dell'art film, le sposano e lavorano come fa l'arte contemporanea sul concetto di operazione e provocazione, deridono la ridicola (questa sì) retorica del cinema puro, chiedono di ridefinire l'etica delle immagini, la stuprano per non vendere falsa coscienza accomodante: di fronte agli sciacallaggi dei reality show, di fronte alle torture viste su youtube, di fronte al dolore degli altri che scorre nel flusso televisivo, o in quello della navigazione on line, sono le immagini di Miss Violence ad essere immorali? Se lo sono, lo sono esponenzialmente: perché violentano una morale abituata allo sdegno via cavo, alla morte al lavoro nei telegiornali, al dolore che scorre e non lascia nulla, se non una catarsi usa e getta tra una pubblicità e l'altra, tra un mi piace su facebook e un brillantissimo tweet. Continuare a pensare che il cinema sia solo nell'apertura di Lumiére, Rossellini e Straub, nella meraviglia infantile del ramo Méliès, nello spettacolo umanista di Ford e di Spielberg, continuare a citare Rivette su Kapò, come continuare a chiedere che tutto si conformi ai canoni morali ed estetici del realismo borghese, significa non confrontarsi con lo stato delle immagini di oggi, che si incarogniscono, si sollazzano e godono negli anfratti dei tabù di Bazin. Non è grande cinema, Miss Violence. E il Leone d'argento e la Coppa Volpi a Themis Panou sono premi in eccesso di grazia, per un film che ci pare importante perché caricatura di altro, accumulo di convenzioni, estetizzazione brutale che schifa la mera e insinuante retorica della realtà e invita al disagio, richiamando con il proprio osceno stridore alla rivolta.
Ormai divenuta cristallo, tanto dal punto di vista tematico che formale, la "nuova onda" greca licenzia un oggetto programmaticamente ributtante che non turba e irrita, proprio in ragione delle attese ampiamente rispettate: geometrica composizione del quadro, inquadrature frontali (l'ellenico marchio del Made In: coppia immobile su divano in pelle umana), movimenti a seguire, o a sottolineare "pornograficamente", azioni inqualificabili (si pensi alla sequenza dei ceffoni al "bomboliano" figlio, che ha avuto la disgrazia di nascere masculo). Attendiamo con ansia lo svecchiamento di un modello oramai fossilizzatosi, un antico paradosso "canino" oggi addomesticato e divenuto nuova Doxa.