TRAMA
Nella profonda provincia americana anni Cinquanta, cinque amiche, stanche delle vessazioni dei coetanei e dell’ipocrisia degli adulti, decidono di passare al contrattacco. Finirà male.
RECENSIONI
Un romanzo di formazione sulle vicende di una nazione: gli Stati Uniti della Felicità sono la terra delle opportunità afferrate al volo e bruciate nel giro di una notte, il paese dell'abbondanza mal distribuita e dell'ansia bruciante di fare giustizia, poco importa se sommaria, un sogno idilliaco che precipita nell'incubo perfetto. Al centro, un manipolo di ragazze bruttine e complessate come tutte le adolescenti, non più intelligenti né più compassionevoli della media, volonterose carnefici e complici inconsapevoli di un sistema che non può essere rovesciato dall'interno, ma soltanto assimilato e, in questo modo, domato. Maddy, la cronista, l'anima semplice, bersaglio prediletto delle compagne non meno che del mondo esterno, è la sola a intuire la catastrofe finale e a sottrarsi volontariamente al destino di queste piccole donne cresciute troppo in fretta, e quindi rimaste crudeli e spregiudicate come bambine. Cantet non cerca il facile sensazionalismo, ma cede alla tentazione di voler spiegare tutto nei dettagli e scivola così nel superfluo e nel retorico, inanellando figure di contorno (lo zio, il prete 'rosso', il magnate violentemente anticomunista) che odorano di metafora e difettano di spessore, appesantendo i dialoghi (di per sé verbosetti) con l'uso di un'invasiva voce over, accatastando letteralmente le sue (anti)eroine l'una sull'altra, al punto che diviene difficile distinguerle tra loro. Forse questo effetto non è casuale, ma non giova alla temperatura drammatica del film, che dopo un incipit rapido e guizzante si accartoccia su se stesso, prigioniero delle tappe obbligate di una discesa agli inferi che odora, suo malgrado, di ramanzina più che di pamphlet, di solido sceneggiato in due puntate più che di Grande Melodramma Classico. Le due ore e venti di film, letteralmente imbottite di spunti che si soffocano a vicenda (non potevano mancare il razzismo e la pedofilia), scorrono piuttosto bene, ma faticano a lasciare una traccia, anche perché le giovani attrici, oltre la lapalissiana freschezza, sembrano non possedere molto. Il romanzo di Joyce C. Oates era già stato portato sullo schermo nel 1996 da Annette Haywood-Carter, con una giovane Angelina Jolie nella parte di Legs.
Strano che Laurent Cantet, dopo aver raggiunto lo zenit del suo cinema di finzione realistica con lo splendido La Classe, si sia imbarcato per il Canada a girare un film in inglese tratto dal romanzo “Ragazze cattive” di Joyce Carol Oates, già tradotto, senza fedeltà, in un film del 1996 con Angelina Jolie. Rispetta la pagina scritta ma sembrano assenti i suoi “esperimenti” di documentarismo pilotato, tutto appare pulito e tradizionale, più simile alla famiglia benestante protagonista che subisce un rapimento che alle Foxfire proletarie, arrabbiate, fuori controllo, spontaneamente incoscienti, la cui leader Legs, oltretutto, è restituita come figura “illuminata” che ha anticipato il femminismo, le battaglie contro la discriminazione razziale e l’ansia di rivoluzione giovanile. Un’opera che scorre liscia, con protagoniste convincenti (soprattutto Raven Adamson) e pagine intriganti grazie ad un racconto di per sé anomalo: Cantet non ci concede i suoi stilemi beatamente immersi nelle emozioni e nell’umanità dei caratteri, è più interessato ad uno sguardo socio-politico che si risolve in un’occhiata superficiale, incapace di scavare e rinvenire le motivazioni ad agire delle ragazzine, preferendo affidarsi agli assiomi della loro guru benedetta dallo “spirito santo” e con gregge al seguito. La voce narrante di Katie Coseni qualche chiave di lettura la dà: parla di paura, di “qualcosa è cambiato”, “Sapeva solo lei dove stava andando”, ma tutto resta vago.