TRAMA
Consumata dall’odio nei confronti del marito per le sue continue infedeltà, la moglie vuole vendicarsi di lui ma finisce per infliggere un colpo fatale al figlio e poi scompare sopraffatta dal senso di colpa. Per il figlio che versa in una condizione miserevole a causa sua, il padre cerca di fare qualcosa solo per rendersi conto che il ragazzo non può guarire. Allora l’uomo si priva della virilità che è stata l’origine di tanta miseria e si dedica anima e corpo al bambino. Di conseguenza la ferita in un certo modo si rimargina, ma un giorno la moglie torna a casa e la famiglia precipita verso una distruzione ancora più orrenda.
RECENSIONI
Che il cinema di Kim Ki-Duk mulinasse senza posa variazioni su variazioni del vecchio schema edipico, e della scena primaria, è chiaro da anni. Dopo Pietà, con quel suo (finto) incesto che spacca il film in due, era anche chiaro che presto questo mulinare sarebbe andato incontro a una netta e decisa radicalizzazione. Difficile peró aspettarsi come esito qualcosa di altrettanto radicale di Moebius.
Si comincia col triangolo classico, quello della scena primaria: padre, madre e figlio. Immobili. Arriva una telefonata. L'amante del padre: un altro triangolo. La madre allora tenta di evirare il padre, invano. Ripiega dunque sul figlio. E sono passati solo pochi minuti. Fino alla fine, il film continuerà su questa falsariga, un turbine psicotico che letteralizza le metafore (la castrazione, da puramente simbolica, diventa letteralmente evirazione) e sfoglia a velocità furibonda ogni possibile variazione sul tema del triangolo edipico. Fino appunto al rovesciamento ultimo, definitivo, quel pre-finale in cui non è il bambino ad assistere al coito dei genitori, ma il padre ad assistere all'incesto. Quel nastro di moebius che è la scena primaria (poiché attesta la coimplicazione di chi guarda nella scena guardata) palesa ora al massimo grado possibile l'indistinguibilità dei suoi due lati. E dunque quella tra l'occhio e il fallo, qui davvero parossisticamente allineati.
E dopo questo punto-limite, dopo la variazione edipica definitiva, cosa c'è? Nulla. Il nulla. La statua di Buddha dell'ultima scena. Il nulla dietro il velo. Eccolo qui, lo strano sincretismo tra oriente e mitologia occidentale che permea variamente tutto il cinema di Kim, e il cui esempio più plateale è Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera. Una volta scomposto e ricomposto Edipo innumerevoli volte, di esso non rimane più nulla - tranne, appunto, la velocità con cui avviene l'incessante scomposizione-ricomposizione.
Moebius è infatti un film che esiste solo come pura dinamica, come puro movimento che si fa beffe dell'inconsistenza che attraversa, dell'infinita mutevolezza della sua unica e ossessiva componente anagrammata in mille modi.
Per raggiungere questa velocità, Kim, che si limita qui a un'esiguità di mezzi praticamente francescana (oltre, c'è solo Arirang e Real Fiction), spinge all'estremo la rarefazione. Un trionfo di raccordi di sguardo, che si mangiano tutto il resto, a cominciare dalla necessità di parlare (dialoghi pressoché inesistenti). L'azione va avanti come un treno, e brucia e calpesta e travolge tutto ció che si mette in mezzo rispetto a questo mero andare avanti – il disagio fisico innanzi alle mutilazioni, certo, ma anche quell'altro ospite tanto ingombrante quanto ininfluente: il ridicolo. Spunti ridicoli ce ne sono finché si vuole: un pene appena tagliato che finisce sull'asfalto di una strada trafficata, sotto gli occhi dell'attonito ex titolare; il padre del protagonista che si imbatte su internet in qualche improbabile vulgata wilhelmreichiana e, convintosi che tutto il corpo è un organo genitale, si mette a sfregare violentemente un sasso contro il piede per raggiungere l'orgasmo (riuscendoci). Ma tutto questo non importa, scivola via: la marcia dell'occhio-fallo procede dritta dal nulla, attraverso il nulla e verso il nulla.
