Giallo

IL TESTIMONE

TRAMA

Pietro è accusato di omicidio a seguito di una rapina andata male. In tribunale, la difesa sostiene che all’ora dell’evento l’uomo si trovasse a casa. Il ragioniere, un vecchio impiegato dell’anagrafe, testimonia che a quell’ora ha visto Pietro sul luogo del delitto: a dargliene la certezza, il suo orologio da tasca di cui vanta l’infallibilità. Il processo si conclude con un tragico verdetto: pena capitale. Intanto il ragioniere comincia a dubitare del proprio orologio e, in preda al rimorso, ritira la deposizione. Pietro è di nuovo libero, conosce Linda, si innamorano, vogliono sposarsi e ricominciare daccapo in un’altra città. Nel disbrigo delle pratiche di matrimonio, i due incontrano nuovamente il ragioniere: la sua estrema gentilezza indispone Pietro, che vuole dimenticare tutto l’accaduto e tenerne Linda all’oscuro. Il ragioniere si avvicina alla coppia, comincia a sospettare che durante il processo l’avvocato difensore abbia manomesso l’orologio. Anche Linda, sempre più preoccupata dalle manie di persecuzione di Pietro, diventa diffidente. I due litigano, poi si riappacificano. Pietro capisce che non può vivere con il timore che il ragioniere testimoni ancora: si reca dal vecchio con l’intenzione di ucciderlo, ma trova l’affittacamere che lo informa che il feretro è stato appena portato al cimitero. Preso dal rimorso, torna da Linda e confessa di essere un assassino, lei lo comprende. Infine, fugge dalla donna e va a costituirsi.

RECENSIONI

IL REGISTA

Si contano sulle dita di una mano i registi italiani che, come Pietro Germi, possono vantare l'appartenenza alla specie dell'homo cinematographicus, prodotto di una modernità ormai estinta che è nato e cresciuto davanti lo schermo. Dei pochi, però, Germi resta tuttora in credito di una legittimazione che vada oltre l'inserimento, non proprio ragionevole, nel canone della commedia all'italiana (Divorzio all'italiana, Sedotta e abbandonata, Signori e signore). Tutta la produzione che precede questa consacrazione è un percorso ad ostacoli nella cultura cinematografica del dopoguerra: Germi cannibalizza stili, generi e forme narrative, gioca e sperimenta in una irrequietezza senza sfogo che lo conduce a fare nel giro dei cinque anni successivi all'esordio un noir francesizzante sul disagio giovanile (Gioventù perduta), un western espressionista sulla mafia (In nome della legge), un melodramma meridionalista sull'emigrazione (Il cammino della speranza) e un poliziesco neorealista sugli umiliati ed offesi (La città si difende). Il tutto con una coerenza di temi e di motivi che ha dell'ossessivo, con un rigore ed una morale che trasbordano spesso in rigorismo e moralismo. Ma quello che distingue Germi da, per esempio, un Monicelli, oltre al piacere irrefrenabile di sperimentare, è una padronanza della tecnica inaudita, appresa da un regista che può a buon diritto considerarsi la balia della generazione nata tra la Grande Guerra e il tramonto del regime liberale: Alessandro Blasetti. Era stato Blasetti nel 1935 che aveva fatto pressione per fare accettare Germi al Centro Sperimentale di Cinematografia, formalmente escluso per via della mancanza del diploma, con lo stratagemma di farlo iscrivere a Recitazione e permettergli di seguire i corsi di regia. Ed è proprio Blasetti, dieci anni dopo, che intercede con i cattolici della Orbis, per i quali girava nel frattempo Un giorno nella vita, per fare debuttare Germi sotto la propria (formale) supervisione. Questo debutto è Il testimone.


LA SCENEGGIATURA

Sulla cocciutaggine e sulla determinazione di Germi esiste una varietà sterminata di aneddoti. Uno di questi vuole che, consegnato il soggetto ai produttori della Orbis, Germi si sia rifiutato di cederne i diritti se prima non avesse firmato un contratto che gli affidava la regia del film. I cattolici ci stanno a tre condizioni: Blasetti supervisore, Monicelli assistente, un paio di sceneggiatori navigati. Questi ultimi due, Cesare Zavattini e Diego Fabbri, erano già sotto ingaggio, assieme ai protagonisti Roldano Lupi e Marina Berti, per l'abominevole e sanfedista La porta del cielo di De Sica (di tutta la filmografia di De Sica, se mi si concede una sparata gratuita, salvo soltanto l'immatricolazione dei bambini ne Il giudizio universale, qualche canzoncina in Sciuscià e il tailleur giallo di Faye Dunaway in Amanti). Insomma, il bel soggetto di Germi - non a caso premiato con il neonato nastro d'argento - finisce nelle mani di una squadra (oltre ai citati anche Ribulsi, un ex collega del Centro che ha una filmografia da sceneggiatore di tutto rispetto, e Alessi non accreditato) il cui scarso affiatamento rimane impresso sulla pellicola, valga su tutte la sequenza tra Pietro e il dirimpettaio di cella che ha tutto il lirismo realista e patetico della penna di Fabbri. Ma questo è un punto marginale. Quello che è centrale, e che ha fatto storcere i nasi dei critici del tempo, è invece la schizofrenia di una sceneggiatura che è per metà una storia d'amore intimista e per metà un giallo psicologico. Senza contare un incipit tra strade e rifiuti, esaltato da una truce voce over, che è lo scotto da pagare al neorealismo. Ma i critici del tempo, si sa, avevano troppa fretta di reinventare un cinema nazionale per prendere sul serio un film che giocava sui generi e che, a loro completa insaputa, metteva drasticamente in discussione l'etica del neorealismo.

GLI ATTORI

Probabilmente imposti dalla produzione, i due protagonisti  sfigurano un po' nel repertorio di direzioni attoriali di Germi. Roldano Lupi veniva da esperienze con i cosiddetti calligrafici (Poggioli, Lattuada) che ne avevano fatto un buon villain sfruttandone i tratti foschi, la voce profonda e la bruttezza gentile. Qui, invece, si tenta di infilargli un vestito dalla foggia troppo raffinata, di certo cucito per qualcun altro. Il personaggio di Pietro, infatti, dovrebbe essere al tempo stesso un omicida non pentito e un tenero amante: Lupi è soltanto uno spiantato molto rude. In compenso, o forse proprio per questo, eccelle nei momenti più viscerali - gli scatti d'ira, le bizze, le prepotenze, lo schiaffo solenne che assesta alla moglie - ed è grazie a questi, dopotutto, che il film non collassa a causa degli effetti disastrosi del miscasting.
Stesso discorso, ma cambiato di segno, per Marina Berti. È l'attrice ideale per un regista misogino: passiva, innocente, elegante, esteriore, ed è precisamente in questa direzione che Germi la utilizza. A volte risulta perfino eccessivo l'accento sulla sua indiscutibile bellezza (tra una Valli senza esuberanza e una Duranti senza eros), più adatta ad un modello divistico di poco precedente a quello neorealista.
La sorpresa, però, è Ernesto Almirante, il vecchio ragioniere. L'attore appartiene ad una dinastia di capocomici che aveva provato con discreto successo la via del muto (il nipote, decenni dopo, porterà la tradizione di famiglia in Parlamento, non prima di essere passato dalla 'Difesa della razza', dalla Guarda Nazionale repubblichina e dalla fondazione di un partito giuridicamente criminale). Incidenti genetici a parte, Ernesto era un caratterista specializzato nel ruolo del vecchio svampito, una macchietta che ha animato con leggerezza un gran numero di film di Gentilomo e di Zampa. Qui, con coraggio, Germi lo reinventa in un ruolo tragico. Ed Almirante crea una maschera straordinaria, un burocrate premuroso ed inquietante, a tratti un persecutore, a tratti un pietoso vecchino. Che dopo sia tornato a fare il vecchio svampito è una delle tante ingiustizie che governano la vita dei caratteristi.

GLI ALTRI

Aldo Tonti è il direttore della fotografia. Sia in senso contingente che in senso assoluto. Per un film quasi tutto in studio è sprecato, ma certi guizzi espressionisti che porterà alla perfezione con Lattuada danno la misura del genio.
Le musiche di Enzo Masetti hanno l'enfasi e l'affettazione del repertorio bandistico delle feste patronali di cupi paesini dell'entroterra calabrese con seri problemi di natalità.

IL FILM

L'accusa di schizofrenia è fondata: in effetti, Il testimone riesce ad equilibrare a malapena le tensioni tra la vicenda amorosa, da Farassino definita “neorealisticamente fresca”, e quella criminale, che, sempre secondo lo studioso torinese, potrebbe venire direttamente dalla produzione di genere degli anni Trenta. Il tema della legge, una delle ossessioni di Germi, è difatti declinato in una maniera che presenta notevoli continuità con la produzione fascista, in particolare quella storica durante il periodo bellico: la sovranità indiscussa della giustizia, l'inappellabilità della pena, la supremazia dell'interesse collettivo (là nazionale, qui etico) sull'interesse personale. Anche la vicenda “neorealisticamente fresca”,in realtà, non sfigurerebbe affatto nel novero dei film intimisti del periodo, quelli che nell'idillio e nel sentimentalismo trovano la propria via per rifuggire all'impellenza del politico, ovvero del propagandistico, e per far evadere gli spettatori dagli orrori della guerra. C'è un capo di imputazione molto più grave: l'assenza, o meglio l'invisibilità, delle questioni che in quegli stessi anni il neorealismo sta elaborando (la ricostruzione, la pacificazione, la memoria storica, la società sbrindellata e così via). Se il cinema italiano nel 1945 è mobilitato in missione sociale, Il testimone è un disertore. Almeno in superficie. In profondità, invece, Germi dimostra sin dall'esordio di essere homo cinematographicus e di utilizzare a pieno regime l'universo della macchina-cinema per articolare una riflessione che apparentemente non ha nulla a che vedere con la realtà sociale del periodo. E lo fa, ancora una volta, impossessandosi di figure e modelli preesistenti: l'espressionismo tedesco, il realismo poetico francese e il coevo noir americano. Attraverso questi, filtrati abilmente da una sceneggiatura che echeggia la letteratura russa dei grandi conflitti interiori, Germi compone una concerto dell'inquietudine (per tre strumenti) nel quale ogni gesto, ogni parola e ogni sguardo si caricano di toni minacciosi, di tragici presagi. Per questa ragione, al contrario da quanto ci si attenderebbe da un film di genere, la colpa di Pietro è svelata ad un occhio attento sin dalla seconda sequenza (durante il processo un inserto brevissimo mostra l'avvocato sabotare l'orologio) ed è dichiarata esplicitamente a metà film. La grande questione morale, allora, diventa: può un assassino vivere felice? Questo interrogativo nell'immediato dopoguerra ha un sapore tutt'altro che effimero.

Mettere in discussione l'etica del neorealismo, scrivevo sopra dissimulando il mio timore di proporre una lettura tanto radicale. In cosa consiste, innanzitutto, questa etica? In una parola, nella testimonianza, ovvero nell'idea che un certo tipo di sguardo sulla realtà possa coglierne il senso e così restituire voce a coloro che non ne hanno, mostrare gli orrori e le rovine della società in cui essi vivono. Il valore del cinema, quindi, non è documentario (ciò che vedete è ciò che accaduto di fronte la mdp), ma testimoniale (ciò che vedete è ciò che accaduto, o che può essere accaduto, ad altri); la sua forza è il credito nel realismo, nella convinzione che la finzione possa essere veritiera, e nella comunità, che implica che qualcuno possa testimoniare per qualcun altro perché in un qualche modo ne è legittimato in quanto simile, fratello, compagno, eccetera. Tutto questo è chiaro già nel 1945 con Roma città aperta, il resto conferma o varia di poco l'assunto.
Cosa fa invece Il testimone? Primo, ribadisce la testimonianza come posizione etica ma – cosa non da nulla – pure come posizione soggettiva e quindi fallace. Secondo, assume il punto di vista di un uomo che ama ed è amato dalla donna con cui vuole mettere su famiglia che però, non del tutto secondariamente, è autore di un omicidio – insomma, l'empatia è destinata ad un carnefice, e non ad una vittima, di cui per giunta non si sanno affatto le ragioni (per quanto è dato conoscere allo spettatore, può anche aver rubato ed ucciso per sfizio). Terzo, nega la comunità, e quindi ogni evenienza di farne parte, costruendo una rete di rapporti burocratici e distanti, quando non di sfruttamento, che rigetta i protagonisti dal mondo circostante. Quarto, ribadisce che al cinema raccontare è molto più che mostrare, che l'intreccio è molto più del fatto, che la narrazione è molto più dell'azione – e lo fa non mostrando il fatto (la rapina e l'omicidio) da cui tutto consegue, anzi al contrario affermando sfacciatamente che tutto questo non riguarda il film, se non nella misura in cui produce in un uomo un Colpevole. Quinto, afferma che il cinema è il cinema, e se non è chiaro allora ben vengano le luci non naturalistiche, i giochi di specchi e le sgrammaticature linguistiche.
Veramente, allora, possiamo ancora considerare Il testimone un film sbagliato, fuori dal tempo, lontano dalla società? Certo, a condizione però che stabiliamo che il neorealismo sia l'unica via percorribile nel dopoguerra e che tutto quello che se ne discosta non sia altro che evasione spettacolare (che di lì a poco, non c'è da preoccuparsi, verrà parzialmente integrata nella duplice formula della commedia neorealista, da Due soldi di speranza in giù, e nella neorealisticizzazione della commedia, con i vari Totò cerca casa ecc. ecc.). E invece Germi tenta un'operazione realmente sovversiva e lo fa, altro punto di merito, dall'interno del sistema – con una produzione, una squadra di sceneggiatori, un direttore della fotografia e una supervisione tecnica che in quello stesso momento stanno, in una maniera o in un'altra, dando carne al progetto neorealista.

Se Il testimone fosse oggettivamente un capolavoro, questa vicenda avrebbe un finale più lieto. Lo è, senza ombra di dubbio, per me: alcune ragioni le ho parzialmente sviluppate sopra, altre più personali sono in questa sede irrilevanti (anche se determinano il 10, ma pure quello è personale e, dunque, irrilevante). In linea di massima, qualche sequenza è appesantita da un lato dalla eterogeneità della composizione (tanto a livello di scrittura quanto a livello di messa in scena), dall'altro dalla parziale inadeguatezza dei protagonisti (a sua volta denunciante l'inesperienza del regista nella direzione degli attori). In altre sequenze appaiono qua e là tracce di patetismo (come nel meraviglioso prefinale gozzaniano nella casa vuota del ragioniere), che per fortuna è depurato da tentazioni alla De Sica – dopotutto Germi è un uomo tutto d'un pezzo, che, d'accordo, sarà pure moralista ed inflessibile, ma mai chiederebbe in elemosina allo spettatore una commozione da accatto.
Durante la seduta della commissione soggetti che discuteva il progetto, raccontano Lonero ed Anziano nella loro storia della Orbis, un teologo capitato lì quasi per caso obietta che la conversione morale del protagonista sul finale, proprio quando la morte del testimone e il silenzio della moglie gli avrebbero consentito di farla franca per sempre, risultava incomprensibile: infinitamente migliore sarebbe stata la comparsa di un prete che avrebbe fatto prendere coscienza a Pietro del peccato commesso. Non è noto chi abbia fatto desistere i membri dal prendere sul serio l'ipotesi. Poco importa se sia stato Germi, Fabbri (più probabile) o qualcun altro; quel che conta è lo scarto tra quella ipotesi e il finale in cui l'uomo decide di costituirsi, la donna gli corre appresso per impedirglielo, lui si nasconde dietro una porticina socchiusa, aspetta che lei passi ed infine esce fuori e prende la direzione opposta. Quel che conta, altrimenti detto, è lo scarto tra una soggettiva in plongée di un crocefisso presumibilmente molto accigliato e i misurati e dolcissimi movimenti di camera con cui Germi imperla una sequenza altamente drammatica. Questo scarto si chiama cinema.

NOTA PERSONALE MOLTO MOLTO A MARGINE

Con questo pezzo, il tredicesimo e il più giocoso, termino la mia collaborazione con Gli Spietati.
Fuor di retorica, ci tengo a ringraziare quanti ne fanno parte per l'ospitalità, il calore e gli insegnamenti che, anche da lontano e inconsapevolmente, mi hanno impartito.
Ancora, sono enormemente riconoscente ai lettori che, nelle modalità e nelle forme più disparate, hanno risposto, anche in maniera molto critica, alle considerazioni che ho tentato di sviluppare, non sempre con successo, sui corpi dei film. Continuerò a farlo, ma lontano dalla contemporaneità.