
TRAMA
L’africano Yussouf arriva a Castel Volturno per raggiungere lo zio, trovare lavoro e denaro. E invece…
RECENSIONI
Il primo segno particolare nell'esordio di Guido Lombardi è l'assunzione del punto di vista del protagonista, lo sguardo crusoeiano di Yussouf: arriva laggiù (là-bas) in Italia e guarda le cose per la prima volta, non ha mai visto il mare. Come il celebre eroe di Defoe, egli coltiva un sogno di realizzazione. Al suo contrario, però, Yussouf nell''isola' non costruisce alcuna self-madeness, non si ritrova ma perde: corteggiato dal miraggio fiabesco del guadagno facile, questi assume subito la prima rivelazione ('Qui i soldi non si trovano per terra') e inizia un graduale percorso di disvelamento sul reale. In controvento rispetto alla contingenza, Yussouf pensa di ricongiungersi allo zio facoltoso ma finisce come ambulante al semaforo: 'Dove vivono gli africani ricchi?', 'In prigione, gli vie'ne risposto. Egli disegna forme stilizzate, vuole 'rendere statue' le manifestazioni della realtà (un uomo al lavoro, una donna), ma la situazione non è idealizzabile come immaginato: le statue vanno sotterrate, devono arrugginire per somigliare al vero.
Yussouf non ci sta: da una condizione comunitaria solidale, il centro di accoglienza nigeriano, passa a una relazione a due con lo zio Moses intavolando, prima inconsapevolmente e poi scientemente, un rapporto tra gangster e protégé che presto si concreta in un intreccio di dipendenza a vicenda. L'unico self-made man possibile è quello criminale. Emerge quindi un'organizzazione verticale, una piramide illegale che prima lascia intravedere la punta, poi gradualmente mostra anche il corpo: la criminalità straniera vive di rimando alla camorra autoctona, è il suo esatto riflesso nero, replica la stessa struttura verticistica, allo stesso modo spaccia e punisce, allo stesso modo prepara la continuità generazionale con i petites da allevare e crescere. Calato nella nuova condizione, realizzandola come irredimibile, Yussouf percorre l''educazione' fino a sfiorare la tragedia: solo allora fugge dal rapporto duale per tornare alla comunità primaria e, completata l'elaborazione interiore, raggiunge infine una posizione morale.
L'altro tratto forte del film sta nell'abbraccio tra fiction e cronaca. La parabola di Yussouf si conclude la sera della strage di Castel Volturno, il 18 settembre 2008, che portò alla morte di sei migranti africani e un italiano. Nella storia Yussouf è testimone di un omicidio, ma riesce a scappare. L'intreccio incontra una pagina di nera con naturalezza e disinvoltura, senza anticipazioni gratuite né code posticce, senza pietismo né sottolineature, ma ricostruendo semplicemente la sostanza di un massacro: non c'è enfasi, alcune pedine eliminano le altre. Più che sul ruolo drammaturgico - dunque -, l'attenzione va riposta nella costruzione della sequenza: negli ultimi dieci minuti il regista dispone un frammento di genere di lancinante precisione, coniugando scientificamente il lato astratto e simbolico con il volto concreto della storia. I killer travestiti da poliziotti sparano contro gli stranieri, crimine e divisa combaciano rendendo tangibile la violenza dell'anti-Stato: l'autorità trasfigurata apre il fuoco sui migranti. Da parte sua, Yussouf si spoglia dei vestiti e si 'confonde' nella notte per sopravvivere: nudo per necessità, torna a una condizione figurativa di schiavitù e sfruttamento. Il redde rationem tra i Casalesi e la mafia africana si trasforma in una fiammata di noir metaforico installato nel contemporaneo.
Per il resto Là-bas è trasparente e solare, tentativo che si esprime per dialoghi espliciti e leggibili, soprattutto nella prima parte con l'ingresso di Yussouf nel 'nuovo mondo': intavolata su battute ad effetto circa la condizione dei migranti e la nostra accoglienza, qui la linea dialogica rischia spesso di spiegare quanto già evidente ('Sono tutti stronzi', 'Benvenuto in Italia'). Là-bas è anche altalenante e imperfetto, con scrittura meccanica dei personaggi e agnizioni previste (come non indovinare la vera attività di Suad appena entra in scena). Ma non sottovaluta la complessità del reale e parla tre lingue (francese - inglese - campano), disegnando una disturbante corrispondenza tra accento locale e italiano spuntato degli stranieri: entrambi sono dialetti, opposti e speculari, in realtà non c'è italiano, siamo in un altro Paese. Una babele criminale dove - come nel racconto biblico - gli uomini non si comprendono e smettono di costruire insieme la torre: non si può edificare a Castel Volturno, si può solo distruggere. Figliastro di Gomorra, certo, ma meno sfuggente e più ridondante, e soprattutto con evidente slittamento della prospettiva, poiché il racconto interno al sistema viene qui reimpaginato dall'occhio estraneo del migrante; opera tanto lineare quanto onesta, dal tragitto drammatico orizzontale (dall'arrivo alla tragedia) senza deviazioni, che non trova asciuttezza e rigore ma si espone ostinata, a petto in fuori. Anche nella denuncia implicita ovunque, anche nella tesi che - in fondo - sostiene. Leone del Futuro come migliore opera prima al Festival di Venezia 2011.
