Commedia, Sala

QUANDO MENO TE LO ASPETTI (2013)

TRAMA

In fin dei (rac)conti, la vita è una bella fiaba. O no?

RECENSIONI

Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri continuano a osservare le piccole e grandi manie dei loro e nostri simili, dalla febbre della giovinezza (a stento tollerata, rimpianta, dissipata, immaginata) all'ossessione del controllo totale, dall'inseguimento (pedinamento?) dell'amore all'indagine sui segni di un destino che è in effetti solo follia paradossale e (dis)organizzata, funebre mascherata di amare incertezze, crudeli casualità, mesti capricci. Come nei precedenti Il gusto degli altri e Così fan tutti, al centro della scena (letteralmente) è il teatro, rappresentazione e doppio onirico della vita, e questo tanto a livello profilmico (la 'fata madrina' Marianne recita con e per i bambini: sublime e ironica autocelebrazione di una delle maggiori sceneggiatrici e attrici di Francia), quanto sotto il profilo della messinscena, in cui tutto è palesemente, ostentatamente finto, dall'uso dei trasparenti (Sandro in motocicletta con la madre) alle immagini dipinte che introducono le sequenze del film (in quella del ballo, l'evocazione dello sfarzo è affidata a un primo piano delle automobili degli invitati, semplici giocattoli cancellati dalla gonna di una principessa ritardataria), alle citazioni che pescano senza vergogna (vergogna di che cosa, del resto?) dal mondo delle fiabe come dalle immagini di Doisneau (l'idillio di Laura e Sandro), con la partitura di Fernando Fiszbein che ingloba e rielabora con inesausta creatività le musiche di Bach e Gluck (tra gli altri).

Il risultato è un patchwork di matrice surrealista (con la differenza che il sogno non è illuminazione, bensì miraggio e illusione ottica), che, enfatizzando il carattere posticcio dei personaggi, li mostra per quello che sono, vittime di uno scherzo atroce, pedine di un gioco che si trascina in circolo, senza alcuna possibile soluzione, men che meno quella, consolatoria, di un lieto fine, seppure 'a mezzo servizio'. Lieve ed elegante, (come) sempre sulle orme di Resnais e Rohmer (Cuori e Il bel matrimonio sono solo due dei possibili riferimenti), dominato dall'ombra della morte (attesa, sottilmente desiderata e finalmente esorcizzata, ma per quanto tempo?) e da quella, forse ancora più inquietante, dell'immobilità (il perdurare dei conflitti tra generazioni segna, ben più della comparsa delle rughe e dei variopinti orologi, il passaggio del tempo), Quando meno te l'aspetti (titolo che non merita commenti, ma quello originale era in effetti intraducibile, a meno di non ricorrere ad analogo calembour) conferma quella che sembra essere la sola regola del cinema della sua autrice (o meglio, dei suoi autori): massimo rigore nell'osservazione, nessun limite all'invenzione. Superflui gli elogi agli attori, tutti perfettamente in parte (parti che, forse non è inutile ribadirlo, esistono solo in quanto stereotipi, e dunque sono difficilissime da 'abitare'): la palma spetta ai giovani Bonitzer e Dupont, struggenti (anti)amorosi, agli antipodi di ogni (im)possibile romanzo in salsa crepuscolare.