TRAMA
In un paese devastato dalla guerra, una donna accudisce il marito, in coma dopo aver ricevuto una pallottola nel collo.
RECENSIONI
Atiq Rahimi adatta per lo schermo, con la collaborazione di Jean-Claude Carrière, il proprio romanzo omonimo (Premio Goncourt 2008) e realizza un apologo che ha il contorno sinuoso e malato di una fiaba. I personaggi non hanno nome, il luogo in cui si svolge l'azione è verosimilmente l'Afghanistan di oggi, ma i riferimenti individuali e spazio-temporali sfumano al cospetto di una materia filmica nutrita in pari misura di sogni e incubi, all'interno della quale il tema della condizione femminile è solo uno degli ingredienti, forse neppure il principale. A dominare, a tratti persino a schiacciare Syngué sabour è la parola: il monologo, dapprima legato alla contingenza, alla preghiera e al desiderio di confortare il malato, si trasforma con il passare del tempo in una confessione che abbraccia l'intero arco dell'esistenza della donna e investe la natura stessa del rapporto coniugale. La parola, risorsa ritrovata davanti al disagio materiale e spirituale insito in una situazione sospesa e senza apparenti vie d'uscita (la protagonista non è vedova, ma è come se lo fosse: agli occhi del mondo, è di fatto un'intoccabile), permette alla donna di collocarsi al di sotto, e quindi al di fuori, delle regole sociali (si sottrae a uno stupro dichiarando di essere una prostituta) e di vedere chiaramente nel proprio passato, compiendo così fino in fondo il proprio destino, legato alla leggenda della pietra paziente, talismano in grado di offrire conforto e assoluzione a chi si rivolga alla sua silenziosa magia. Il risveglio alla vita, complici le cure di una zia saggia e libertina e la presenza di un soldato giovane e inesperto, crea le premesse per la rituale (e illusoria?) catarsi conclusiva.
Il merito principale di Rahimi è quello di non cercare a ogni costo un registro omogeneo per un racconto così denso di spunti differenti e difficilmente conciliabili: il film passa così senza soluzione di continuità dalla cruda descrizione della violenza (più precisamente, degli effetti della violenza: la mattanza nel giardino dei vicini) al lirismo crudo e angosciato delle scene dedicate alla protagonista, prigioniera di spazi luminosi e dai toni chiari, ma non per questo meno soffocanti (i titoli di testa si chiudono sull'immagine della fuga, immobile e impossibile, degli uccelli dipinti sulle tende della finestra), vivace macchia di colore su esterni grigi e fangosi, progressivamente sempre più immersa nell'illusoria libertà e nella fragile sensualità della sua nuova vita, sino alla prodigiosa metamorfosi finale. L'eccesso di schematismo nella vicenda, così come nel disegno dei personaggi, non attenua il fascino soave e oscuro della pellicola, cui avrebbe giovato qualche ammiccamento in meno (la parabola sul Profeta) e una recitazione più sorvegliata da parte della diligente Golshifteh Farahani (velo, anzi, burqa pietoso, al solito, sul doppiaggio).