TRAMA
Whip Whitaker, esperto pilota di linea, grazie a un’audace manovra d’emergenza riesce ad evitare che il suo aereo diretto ad Atlanta si schianti al suolo a causa di una grave avaria e con un atterraggio di fortuna salva la vita a quasi tutti i passeggeri. Acclamato come un eroe, dovrà però fare i conti con le indagini sull’incidente che rischiano di portare alla luce il suo alcolismo.
RECENSIONI
Ritorno al presente.
Dopo più di un decennio trascorso, con esiti controversi, nelle realtà parallele e immaginifiche dell'universo digitale, Zemeckis torna con Flight al cinema live-action. Sperimentatore instancabile, Zemeckis non ha mai scisso la sua passione per la tecnologia da un indefesso spirito umanista e in tal senso la sua lunga avventura con la performance capture, a prescindere dal giudizio finale sul valore del trittico prodotto, ne ha rappresentato quasi un'estremizzazione, dall'umano sempre partendo per riconfigurarlo, dandogli un corpo nuovo, deviando dalle deformazioni cascanti e grottesche de La morte ti fa bella, in un tentativo (fallito o no, non è questo il punto) di esplorare nuove percezioni (discorso che aveva già avuto una densa introduzione nel sottostimato Contact).
Flight si riallaccia idealmente all'ultima opera non d'animazione zemeckisiana, Cast Away: non tanto e non solo all'analoga catastrofe aerea che costringeva il personaggio interpretato da Tom Hanks a un solitario percorso di rinascita quanto al crocevia nel quale si ritrovava nel finale, in attesa di decidere quale strada prendere. Melodramma della responsabilità ibridato col disaster movie e il legal drama, Flight decolla con un pezzo di cinema formidabile. La lunga sequenza dell'incidente in volo è all'insegna di una visionarietà robusta e rigorosa che non perde di vista l'oggetto della narrazione per inseguire la solita spettacolarità isterica: nel capovolgimento letterale delle prospettive, nella messa in scena di un mondo rovesciato e in frantumi, l'occhio del regista dà forma all'illusione del controllo (e dell'invulnerabilità) da parte del protagonista, al suo stupefacente senso dellorientamento in una situazione di assoluto caos, a un atto di sconsiderato eroismo che con sottilissima ironia sfuma nel blasfemo, tranciando campanili, turbando la quiete di una funzione religiosa, ridonando la vita a chi sembra già condannato a morte. A seguire, la soggettiva nebulosa immerge nel riabituarsi al mondo di Whip Whitaker, il suo occhio insanguinato si apre a un universo che non è più quello di prima anche se sembra lo stesso.
Quello che si dispiega dopo l'incidente è un difficoltoso cammino esistenziale alla scoperta di sé, in bilico tra ripartenza e schianto, insidiato da inerzia e autoinganno, in cui i cliché dei rehab movies vengono sì riproposti ma come denudati e ricondotti all'essenziale. Nessuna condanna, nessuna assoluzione. Alcol e droghe non vengono demonizzati in nome di chissà quale crociata puritana o integralismo salutista. Se ne constata la presenza, attutendone la presunta carica negativa e tentatrice per spostare invece i riflettori a monte, sulle difficoltà della costruzione di un'immagine quanto più autentica di se stessi (e a questo riguardo allora il personaggio lebowskiano di John Goodman, al di là della funzione più o meno a fuoco di comic relief, introduce un punto di vista non normativo sul tema, scardinando in modo scanzonato la gabbia di un'interpretazione perbenista). Le ambiguità restano, quietamente beffarde, felicemente insolute: la cocaina rende presentabili e lucidi dopo una sbornia colossale, l'incoscienza necessaria a compiere un'azione azzardata ma salvifica è probabilmente frutto della tanto esecrata dipendenza. La storia d'amore di Whip Whitaker (un eccellente Denzel Washington, antieroe sornione e vulnerabile) con l'ex fotografa eroinomane Nicole devia dal canone dell'happy end, si ferma allo stadio di ipotesi, la solidarietà tra sopravvissuti e danneggiati non essendo ancora pronta a trasformarsi in un progetto più solido di vita condivisa.
Zemeckis si prende il suo tempo, adotta una regia sobria, calibrata tra piani medi e primi piani, ancorata al fattore umano, padrona degli spazi (si guardi ad esempio alla sapiente suddivisione della scena del dialogo nella scala di servizio dell'ospedale tra il pilota alcolista, la giovane tossicodipendente e il malato terminale, con la distribuzione dei personaggi su tre livelli legati dalla condivisione del fumo di una sigaretta; oppure alla sequenza del minibar, articolata su due stanze-alternative, con la suspense costruita anche grazie ai rumori ambientali). Eccede forse nella gestione della colonna sonora, con celebri pezzi a comporre un repertorio fin troppo a tema, didascalico quando non pleonastico (i nomi son quelli dei Rolling Stones, Marvin Gaye, Joe Cocker, tra gli altri) ma alleggerito dallo statuto spesso intradiegetico, dall'appartenenza al vissuto dei personaggi. Contemporaneamente, senza esibizionismi, raschia la patina paralizzante di un Paese schizofrenico che ha bisogno al tempo stesso di eroi e di capri espiatori, di salvezza e punizione, che sovrappone Dio al caso rifugiandosi in una spiritualità codificata, deresponsabilizzante, consolatoria (Once you realize all the random events in your life are God, you will live a much easier life, afferma sarcastico il malato di cancro).
Cinema onestamente popolare che non ricorre a scorciatoie etiche, Flight modula il mainstream conciliando Hollywood e rovelli kieslowskiani, affronta le ineliminabili scorie post 11 settembre riecheggiando il classicismo problematico di un Capra o un Wilder. E da film morale e non moralista approda infine senza dare risposte alla domanda più semplice e più scomoda, quella che non prevede uscite di emergenza.
Who are you?
That's a good question.
Ritorno di Robert Zemeckis al cinema live action: quello che poteva essere un racconto a rischio per schematismo, moralismo, melensaggini e percorso risaputo nel dramma dell’alcolismo da stigmatizzare, grazie alla sua regia affiora con gli umori smussati e, pur non eguagliando l’eccellenza di Giorni Perduti o Via da Las Vegas, sa districarsi in fecondi territori ambigui, raggiungendo senza scorciatoie una chiusura edificante. Nella sceneggiatura, ad esempio, ci sono tracce sulla Fede (di cui è sprovvisto il Whip dell’ottimo Denzel Washington) che il regista non cavalca (anzi: vedere la scena dove Whip fa visita in ospedale al co-pilota con fidanzata invasata di Gesù), sottraendo all’apologo il potenziale messaggio del salvataggio per miracolo, orchestrato dall’alto per far prendere al protagonista coscienza della propria dipendenza. La scena del disastro aereo, pur dovendo competere con una miriade di pregevoli pellicole che la contengono, è davvero da manuale per montaggio, costruzione della tensione, sorprendenti dinamiche “impossibili” (fino all’aereo capovolto). A seguire, l’opera si gioca molto, mai manichea, sul dilemma di un eroe che ha effettuato manovre straordinarie in uno stato fisico che contravviene alle regole: questo porta a riflettere, insolitamente per un film hollywoodiano (ma non per, ad esempio, il cinema di Clint Eastwood), sull’assenza di bianco e nero. Evitato il percorso religioso, poi, Zemeckis preferisce concentrarsi sul dramma di un uomo che non ammette di avere un problema, fino ad invitare gli amici a mentire per lui (ci sono anche piccoli sipari più comici, tramite il pusher-macchietta di John Goodman). L’udienza finale, allora, si trasforma in una riunione di alcolisti anonimi, con epifania in nome dell’amore e nel rispetto dei morti.