TRAMA
Zona costiera di Tokyo: una donna vestita di rosso viene affogata in una pozzanghera. Gli indizi incolpano lo stesso detective che segue le indagini e che inizia a vedere il fantasma della vittima. Un chirurgo ed una segretaria uccidono con lo stesso modus operandi.
RECENSIONI
Non poteva mancare Kiyoshi Kurosawa fra i registi della serie “J-Horror Theater”, essendo uno dei numi tutelari del nuovo cinema dell’orrore giapponese e, senz’altro, quello più dotato, almeno da quando ha iniziato a trascendere il genere per abitare zone metafisiche, facendo (anche) colloquiare gli ambienti con i temi e le sensazioni delle sue opere: la zona costiera di Tokyo continuamente bonificata, in questo caso, gli permette un apologo (volutamente mai conclusivo o assolutistico) sul mutamento del paesaggio che sottrae alla memoria il passato. Il fantasma vestito di rosso accusa le sue vittime di averlo dimenticato: peggio, di non essersi nemmeno accorte della sua assenza; il protagonista, invece, vive come trauma un potenziale vuoto di memoria. Purtroppo, l’opera finisce per asservirsi alla logica del colpo di scena autoreferenziale (la sovrapposizione, nel segno del rosso e con tracce identiche, del fantasma con la prima vittima) o tortuoso (le ossa della fidanzata), disseminando indizi ingannevoli: il miglior cinema di Kurosawa, invece, ha sempre fatto progredire gli eventi con motivazioni “morali”, senza rivelazioni gratuite, rischiando spesso la confusione tematica nell’accumulo di allegorie in stile libero e con finali aperti. All’inizio è suggerito un tema ecologista in cui le vittime muoiono nell’acqua salmastra e le scosse di terremoto, oltre ad essere il segno di una mente che va in frantumi, rappresentano il braccio armato della Natura che si ribella allo scempio dei piani regolatori: il discorso, però, viene annullato con le varie declinazioni del trauma del “non essere visti” e con il contesto, più convenzionale e spettacolare, che circonda il fantasma, motivato dalle angherie subite nell’ospedale psichiatrico. Noir d’orrore poco spaventoso, con fantasmi poco soprannaturali, in cui l’autore elargisce almeno una scena da antologia (il poliziotto affogato in una tinozza), soluzioni tecniche notevoli (il finto piano sequenza del chirurgo suicida) ed un talento pittorico/plastico non comune nella scelta di location colme di degrado. Noto anche come Castigo, mentre il titolo originale significa “urlo” (quello del rimosso che vuole farsi sentire).