TRAMA
Laguna Beach. Chon e Ben producono la migliore marijuana del Paese e si godono l’amore dell’affascinante Ophelia, una ragazza dell’alta società. La loro idilliaca attività verrà ben presto presa di mira da un cartello della droga messicano. Dopo un fallito tentativo di accordo tra le due parti, la situazione prenderà un risvolto molto violento.
RECENSIONI
Savages è un anacronismo estetico così sfacciatamente ludico e artificioso da porsi come rinuncia ideologica. Siamo di fronte a un Oliver Stone incapace di leggere la contemporaneità, fagocitata da un rigurgito ultrapulp che fa della (sua) America un crogiolo di freaks, in cui il retrò del cartello messicano non è poi molto lontano dalla patinatura pop delle nuove belve (Chon, Ben e “O”). E non può non suscitare tenerezza questa resa dell’autore, autoironico nell’accettare quanto il suo esplicito moralismo sia diventato inadeguato nel ritrarre il presente, quanto il nuovo American Dream abbia come oggetto del desiderio una frivola idealizzazione (la bella Ophelia), quanto non valga più la pena fottere il sistema e combattere contro di esso.
E’ la donna la forza centripeta (e in parte giustificazione autoassolutoria) dell’intero ingranaggio, nella tensione tra il vecchio sistema matriarcale di Elena e il nuovo vuoto pneumatico rappresentato da “O”. Quest’ultima è l’effige e il collante di un bipolarismo outsider americano che trova in Chon (reduce duro e reazionario) e Ben (surrogato new age e terzomondista) la sua patetica metafora. Motore dell’intero film, Ophelia è il contenitore senza contenuto, il nulla e la sua ipocrisia tragica, l’unico personaggio che non ha bisogno di indossare o togliersi una maschera (atto reiterato in tutto il film) perché profondamente vero.
Nella sequenza del menage a trois emerge una piccola agnizione: mentre Chon e Ben si godono l’estasi con gli occhi chiusi, “O” inizia a osservare il cielo notturno, si perde nella soggettiva dell’universo, per poi ritornare nel suo spazio di appartenenza. Si tratta di una fuga impossibile e improbabile, un delirio di evasione che fortifica ulteriormente l’impalpabilità del nuovo valore in campo, di una voce over capace di subordinare l’intero sguardo sul mondo in nome dell’amore posticcio e superficiale, malata nel negare con sognanti voli pindarici il materialismo sfacciato di cui si fa promotrice.
Stone non può che costatare l’ineluttabile deriva generazionale, ne sposa l’eccesso dell’immaginario e l’assurda queste, garantendogli gli obiettivi prefissati e le fantasticherie.
Non mancando però di prendersi una goffa rivincita con un espediente meta- che di colpo sbugiarda la vena fanatica del terzetto (il rewinding finale). Il compromesso con i poteri forti e corrotti, seguendo l’ordine precostituito, sigilla il trionfo di una libertà percepita falsa fin dall’inizio. Al povero trio rimane l’oasi indonesiana da cartolina, nell’inno masturbatorio di un primitivismo che vorrebbe legittimare la belva egoistica dentro di noi.
Oliver Stone e i suoi temi scottanti/altisonanti presentati in modi provocatori: ogni tanto, però, come con il sottovalutato U-Turn, si dà al puro film di genere, pulp, criminale e drogato, concentrato su piccole figure che si ritrovano in un sadico vortice di violenza. Questo racconto, tratto dal romanzo dell’ex-detective Don Winslow (anche sceneggiatore), è efficace, sa sorprendere con massime illuminanti (le considerazioni sul trio amoroso di Helena/Salma Hayek) e dettagli caratteriali che asportano i personaggi dal manicheismo. Stone ci ricorda che, oltre al marchio di fabbrica di stilemi adrenalinici con tecnicismi, è anche (quando vuole) talentuoso narratore e creatore di profili appassionanti: facile innamorarsi del trio Jules e Jim con Bande à Part e More (Stone ha mostrato alla troupe Il Disprezzo) perché, sebbene su lato criminale, porta avanti un credo sessantottino attraverso il carattere idealista del Ben buddista, contro la violenza ed innamorato della vitalità dei paesi del terzo mondo. Il loro è un legame sincero, colmo di purezza giovanile che la vita, il film stesso, sporcano inesorabilmente (il reduce Chon, con la morte dentro, trova in O una ragione d’esistere). Il mondo che li circonda e sovrasta, che siano un cartello messicano spietato (la disturbante violenza delle torture) o funzionari governativi corrotti, non sta al passo con il loro cuore pulsante, quello del film, tarato da Stone su di una O meno gotica e più solare rispetto al romanzo. Poi ci sono i cattivi da manuale della macchietta, vedi Benicio Del Toro o il viscido di John Travolta: Stone rinuncia, giustamente, ad iperboli e matrici grottesche ma mantiene una sottile vena caricaturale che percorre tutto il film, che attesta il pulp, il folle e finto, rendendo ancora più coinvolgente la “verità” dei tre personaggi (il “mondo sognato” dall’onnipresente Io narrante di O regala due finali, uno western e uno beffardo). Il considerevole minutaggio è già sfrondato del carattere della madre di O, interpretato da Uma Thurman.