Drammatico

THE PATERNAL HOUSE

Titolo OriginaleKhanéh Pedari
NazioneIran
Anno Produzione2012
Durata100'
Sceneggiatura

TRAMA

Un fatto di sangue, una ragazza uccisa dai famigliari, un cadavere sepolto in cantina. Una colpa che torna nel tempo.

RECENSIONI


La sezione Orizzonti di Venezia 69 si tinge di nero con il film di Kianoosh Ayyari. In una grande casa di Teheran si consuma un delitto d’onore, una ragazza viene uccisa dai suoi parenti perché ha disonorato la famiglia, ma non vengono specificati ulteriori dettagli. Il corpo è sotterrato nella cantina della casa paterna: da quel momento la Colpa si ripercuote senza pietà sulle generazioni presenti e quelle successive. A partire dal 1929 cinque segmenti/momenti storici si dispiegano a intervalli irregolari, attraverso le ellissi, con l’inquadratura di raccordo sul portone della tenuta. Il segreto di famiglia resiste nel tempo: questo si rivela gradualmente ai vari membri, proponendosi secondo una struttura ciclica che non lascerà scampo ai discendenti.


Il regista intavola coraggiosamente il racconto su due soli ambienti, dentro e fuori rispetto alle mura: la messinscena si muove dall’uno all’altro, riportando lievi variazioni che rispettano sempre una coerenza interna come dimostra l’architettura della casa, all’inizio in costruzione, alla fine in demolizione. The Paternal House è imperniato su un archetipo base dell’horror, la cantina, ciò che sta sotto, sia fisicamente nell’assetto dell’abitazione che inconsciamente nel rimosso della famiglia. All’atto omicida l’ambiente sotterraneo si configura come “antro”, buco nero che nasconde un segreto, di cui vediamo anche la costruzione: la sequenza iniziale del delitto è suggellata da un effetto speciale horror puro, appena mascherato da un velo, la deformazione cranica che si compone sulla testa della ragazza. Per contrasto le riprese esterne sono particolarmente solari, inquadrature con più personaggi e tarate sui toni chiari, ad aumentare la dissonanza con l’oscuro e disorientante spazio sotterraneo.


La questione araba è sempre presente nel disegno. La violenza domestica e la condizione femminile sono i due macrotemi che informano la struttura narrativa dall’inizio alla fine; così va intesa anche la frammentazione in cinque blocchi, a rimarcare che l’ingiustizia fondante non viene scalfita nel tempo neanche di un millimetro.  Eppure - questo il punto - l’argomento non viene detto, resta sottinteso e non diventa mai “messaggio” perché la pellicola mantiene il baricentro sulla costruzione: per mezzo di uno stile compatto e logico, in modo crudele e preciso, si dispone l’accerchiamento di un nucleo colpevole, come tutta la società iraniana, della repressione sul corpo della donna. Una famiglia/nazione che viene inseguita da un fantasma vendicativo, quello della vittima, presenza assente che non si mostra in forma spettrale ma comunque reclama la propria rivalsa (l’ictus indotto/provocato al fratello). La storia si chiude con la sequenza dell’estrazione delle ossa come a comporre, per metafora, lo scheletro delle responsabilità di un Paese.

Non mancano i déjà vu, in particolare sia l’impostazione ciclica che la maledizione generazionale sono luoghi cinematografici già ampiamente frequentati. Ma raramente a certe latitudini si è visto un tema centrale così mimetizzato, prima nella cornice del film “di genere” e poi in una progressione drammatica dagli esiti felici.