Commedia, Recensione

IL FALÒ DELLE VANITÀ

Titolo OriginaleThe Bonfire of the Vanities
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1990
Genere
Durata125'
Sceneggiatura
Tratto dadall'omonimo romanzo di Tom Wolfe

TRAMA

L’esistenza del broker di Wall Street Sherman McCoy viene sconvolta quando, in auto con la sua amante, è coinvolto nel Bronx in una tentata rapina che finisce con un investimento. La mancata denuncia ha un effetto domino: il caso, divenuta una bandiera politica, fa di Sherman McCoy un capro espiatorio.

RECENSIONI

Nel 1987 il giornalista (saggista, critico, maître à penser e chi più ne ha ne metta) Tom Wolfe pubblica, a cinquantasei anni, la sua prima fiction-novel, un ponderoso volume che, da subito caso letterario destinato all’adattamento per il grande schermo, dipinge il ritratto di un antieroe contemporaneo, Sherman McCoy, colonna di Wall Street che, per un crudele gioco del destino, si trova coinvolto in una vicenda strumentalizzata dai media e al centro di bassi intrighi politici. Suo dunque il savonaroliano falò delle vanità, fatue rivelandosi le ricchezze, effimero il prestigio, illusorio il suo potere di “padrone dell’Universo”.
Il film di DePalma - stroncato dalla critica, fallimentare al botteghino - epura tutto il sostrato drammatico del libro, la densa e cupa coltre kafkiana, il tormento del protagonista, per fare della storia una satira a tinte esagerate. Tutto sommato il rutilante pianosequenza iniziale di quasi cinque minuti al World Trade Center, può essere considerato una sintesi significativa dell’intero film: tanto funambolico e sorprendente nella fattura quanto vuoto nella sostanza; perché nonostante il rimarchevole tentativo di eccedere in ogni elemento – dai movimenti vorticosi di una macchina da presa magistrale fino alle altisonanti e schizzate interpretazioni di tutti gli interpreti, nessuno escluso – la satira che sortisce dalla pellicola risulta fiacca e innocua, causa una sceneggiatura (del premio Pulitzer, Michael Cristofer) che se da un lato, opera l’opportuna semplificazione della narrazione del romanzo, dall’altro, ridotta l’opera letteraria al suo scheletrico plot, finisce per sacrificare quello che è il sostanziale e significativo punto di forza del volume, la descrizione/analisi del milieu. Tom Wolfe (lo dicono anche le poche, successive novelle – in tutto fanno quattro in venticinque anni -) , anche quando si mette nei panni del romanziere, infatti, rimane fondamentalmente un giornalista, un occhio che sa guardare, più che uno scrittore che sa inventare.

L’idea di fare del cronista Peter Fellow (Bruce Willis), la voce narrante del film e quasi un alter ego di Wolfe, non è proditoria, quella di conglobare tutte le figure di magistrato in una sola, e di colore per giunta (Morgan Freeman, il giudice… White) ha un suo perché, l’affidare a Tom Hanks il ruolo di protagonista è mossa efficace come quella di fare del Reverendo Bacon (John Hancock) una sorta di invasato Little Richard, peccato che, al di là di qualche sapido dialogo, manchi al film tutto lo spessore che sembra invece presupporre, non proiettando che una flebile ombra del discorso critico di una società avida, ipocrita e, ad ogni livello, profondamente razzista in cui la giustizia è la somma compromissoria di posizioni di potere contrastanti, in cui il progressista e il conservatore sono marci e disonesti e la verità non interessa a nessuno se non ne risulta qualche vantaggio immediato. Anzi, teorizzato a dovere il paradosso centrale dell’affresco di Wolfe (in un mondo in cui “regna la cacca” perché la verità venga a galla bisogna mentire), si inciampa in un sermone tanto moralistico quanto inutilmente didascalico – affidato all’inattaccabile giudice di colore - sulla necessità di rimanere dignitosi di fronte alle fuorviante e opportunistiche chimere del potere e della fama. Diverso anche il finale: se nel romanzo la registrazione illegale dà a McCoy un vantaggio processuale, senza comunque esimerlo da un procedimento che ne farà una sorta di imputato di professione, nel film la prova lo scagiona, semplificazione doverosa, senz’altro, ma che ripunta l’attenzione sull'esilità della narrazione.
DePalma, al netto della carente scrittura, gira peraltro da par suo, sempre a lettere maiuscole, con grande scialo di grandangoli, carrelli vorticosi, plongé e non rinunciando a certi vezzi (gli split-screen, i punti di ripresa dal basso), porta avanti una messa in scena da Serie A, muove gli attori in evidente omaggio alla grande stagione della commedia hollywoodiana (Melanie Griffith che marilyneggia, F. Murray Abrahms è pura macchietta wilderiana, etc), usa magistralmente la colonna sonora (Gruisin più repertorio straussiano) e partorisce un film di fattura alta e  di sostanza aerea che fa di un  romanzo profetico (alla luce della grave crisi economica di questi anni, debitamente e lucidamente presagita nelle sue pagine) una pochade barocca che funziona a corrente alternata.
Doppiaggio inaggettivabile.