TRAMA
John Baltimore è uno scrittore di romanz(ett)i gotici in crisi. Durante il patetico tour promozionale si trova in un paesino che nasconde diversi segreti. Proprio mentre è alla ricerca di una nuova storia da scrivere per sopravvivere economicamente…
RECENSIONI
«E' mia intenzione dimostrare che nessuna parte di esso [Il corvo] fu dovuta al caso o all'intuizione - che l'opera procedette, passo passo, al suo compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico» Edgar Allan Poe, Filosofia della composizione
In Filosofia della composizione Edgar Allan Poe viviseziona il dire poetico, chirurgicamente, con quella che Baudelaire disse "impertinenza". Asporta ogni elemento alla base del poema più celebre, del frutto perfetto: Il corvo. E rivela, nell'operazione, scelte che vorrebbe scientifiche, mai mistiche, decisioni a fondamenta di quei versi: ammutolisce il mito della scrittura come estasi, raffredda la leggenda della febbre creativa, riduce a formula matematica l'espressione. Poesia è dunque prassi. Il corvo solo (?) un prodotto, seppure culturale, seppure artistico. In Twixt Francis Ford Coppola affianca a uno scrittore in crisi lo spettro di Edgar Allan Poe. Che cita stralci della sua Filosofia. E Twixt è oggi (anche, non solo) la Filosofia della composizione di Francis Ford Coppola. Colui che del cinema ha fatto arte lirica, espressione individuale, dittatoriale, colui che più d'ogni altro ha piegato la fabbrica dei sogni al progetto visceralmente personale, l'uomo che ha fatto inchinare l'industria a un desiderio cinematografico radicalmente autoriale. L'idea razionalista di un autore romantico. Coppola (nel corpo sfatto del suo alter ego, lo scrittore in crisi John Baltimore) incontra Poe: e se Twixt è evidentemente, banalmente, un ritorno alla forma gotica per l'autore di Terrore alla tredicesima ora e Dracula di Bram Stoker, è anche, soprattutto, una riflessione esplicita sulla sua nuova giovinezza cinematografica. Una nuova giovinezza bruciante, che fagocita ogni retorica e la annulla nel ridicolo, nel grottesco, nella caricatura, che sa del deja vu in cui affoga ogni discorso e dunque riduce il proprio ai numeri primi. Una nuova giovinezza in cui la stilizzazione non è mero ironico gioco post-moderno, perché l'ironia non è il fine di un percorso, ma un (già) dato concreto, la forma in cui si è cristallizzato un mondo rappresentato sino alla parodia. E' con le vesti usurate dello spettacolo che Coppola cerca, insistentemente, una nuova verità. Sempre più propria, sempre più personale, come e più di ogni altro manierista del cinema contemporaneo, da Almodovar a Von Trier. Ed è una ricerca che qui, desertificando un territorio letteralmente romantico, viene ridefinita: prima portata a uno straziante, indicibile fulgore, poi riconosciuta come mera forma retorica, ridotta a formula come altre. A paradossale filosofia della composizione, attività razionale di una pratica febbrile.
«Solo tenendo sempre presente il dénoument si può dare a un intreccio il suo necessario aspetto di coerenza, o connessione causale, facendo in modo che, in ogni punto, gli avvenimenti e soprattutto il tono seguano lo sviluppo del disegno»
Twixt è il nome di un gioco da tavola, una sfida a due con un unico scopo: congiungere due lati opposti del campo da gioco, dopo averlo strategicamente impedito all’avversario. John Baltimore è uno scrittore in crisi, il suo scopo è narrare una storia. Qualcuno (l'agente, la moglie) lo costringe a farlo, volgarizzando il gesto creativo per necessità di denaro. Qualcuno (lo sceriffo) - qualcuno che ha manipolato la realtà per vendere una falsa narrazione -, lo attrae verso vicoli ciechi, lo chiama a verbalizzare ciò che vuole il senso comune ma non è verità. Qualcuno (la visione di Poe) gli regala pillole della propria Filosofia della composizione, lo invita alla disciplina del racconto, salvo poi negarsi. Perché sarà poi lo stesso Poe - che morì in alcolismo, depressione e povertà dopo il decesso della moglie - a individuare l’evento dinamico/traumatico agli albori della propria arte, il grumo di umanissimo dolore che sente l’urgenza di sciogliersi in espressione artistica. Il twixt, il gioco, la ricerca, acquista la forma di detection, una detection in abisso, verso i propri luoghi oscuri. E l’obiettivo è il lato opposto, il dénoument, cioè il luogo dove i nodi dell’indagine si districano e la storia, finalmente conquistata, può cominciare. Eppure questo punto di arrivo, la risposta alla domanda da cui muove il viaggio dell’eroe, è prevedibile, familiare, (un)heimlich: l’incipit di ogni romanzo di John - dice l’editore - è il medesimo, una scena che si ripete sempre uguale, un vizio che pare maniera ma, lo scopriremo, è conseguenza di un trauma devastante; e quando un nome caro sostituisce il nome della figura femminile del racconto, si tratta di un lapsus che rivela quasi immediatamente l’agnizione finale: la giovane che abita le allucinazioni di John sta per la figlia scomparsa, quel cadavere che principia l’indagine è un McGuffin che ha un volto, marchiato sul cuore di un padre devastato dalla colpa. E’ quel lutto a essere il principio e la fine di questa storia, come di tutte le storie di John. Come di Twixt: perché le dinamiche che portano alla morte della figlia del protagonista sono le medesime che hanno ucciso il figlio di Coppola, Gian Carlo. Messe in scena 25 anni dopo, fatte Alfa e Omega di una rappresentazione. Così, Coppola svela il suo fine, la rielaborazione di una tragedia personale, del dolore privato maggiore. E’ quello il dénoument finale, quello intorno a cui si aggregano i frammenti di un film sfilacciato, l’elevazione che coincide con la necessità primitiva e profonda: fare del cinema catarsi privata, luogo d’elaborazione della tragedia più intima.
E quindi il digitale per Coppola è - come per Lynch - luogo dei fantasmi, terra riemersa del rimosso, quindi è - come per Von Trier - strumento d'estrinsecazione delle proprie ombre, strumento taumaturgico, arte pittorica espressionista. Eppure, qui, c'è qualcosa di diverso: laddove per questi autori il cinema è teatro dove si muovono gli eccessi (del passato, dell'immaginario, dell'anima), Coppola ammansisce quest'arte del bisogno - quest'arte irrazionale e obliqua, quest'arte che porta (con la messa in scena madre del lutto che lo devasta) sino al parossismo - nell'esibizione di una consapevolezza razionale, calibrata, quasi matematica, nonostante il suo essere scomposta: quando sul finale John presenta il suo nuovo libro (forma scritta di quanto abbiamo visto), un libro battezzato dall'editore come di prossimo sicuro successo, Coppola pare quasi irridere il suo gesto, definirlo nei margini di una paradossale strategia compositiva, quasi come trasformasse il suo dolore eccessivo in una (incompatibile) utilitaristica retorica del dolore. Come se fosse un gesto così urticante da necessitare di ghiaccio. Come volesse adeguare alla digeribilità della scena la propria oscenità. Come se affrontasse frontalmente l'esigenza tutta contemporanea del ridimensionamento nell'ironia radicalizzandola, portandola al collasso.
Nel verseggiare di Twixt, ogni elemento allitera citazioni del Coppola e del cinema che fu e che è (si prenda il finale, derisione serissima di un qualsiasi Twilight), ogni fase del vedere cinematografico viene stilizzata (dalla lanterna magica al 3D): Coppola pratica un cinema della meraviglia istantanea, spettacolo baraccone che produce immagini ammalianti, stucchevoli e quasi autoparodiche, composizione per frammenti (variabili: Coppola ha sperimentato in lavorazione anche una narrazione che rispondesse al montaggio alle esigenze via via manifestate dallo spettatore), come se la discesa agli inferi del protagonista, il percorso di formazione della consapevolezza, fosse una seduta analitica immobile, come se l'obiettivo a cui giungere fosse già lì, solo obnubilato. E come se dietro la superficialità si nascondesse l'abisso.
Opera invendibile, di una radicalità espressiva che non può che porre in imbarazzo, sperimentazione cocciuta su forme (che trasforma in) abusate, Twixt difficilmente può essere compreso all'interno della giusta misura in cui affoga la critica nostrana, quella per cui i canoni estetici sono pitagorici, quella che non accetta che qualcuno osi forme differenti, quella per cui il termine di paragone è il romanzo ottocentesco e mai la provocazione caricaturale dell'arte contemporanea, che non si pasce ironicamente della fine delle storie (come non Tarantino, ma il tarantinismo) ma s'agita perennemente per uscirne, per superarla. Non ha più nulla da dire, John Baltimore, Stephen King dei poveri costretto ad anagrammare costantemente quei quattro elementi da quattro soldi che, una volta, gli hanno regalato successo. Ma questa non è la messa in scena di una crisi. E' una riflessione inesauribile, esplorativa, sulle potenzialità del dire cinematografico. E' un film che dimostra come Coppola parta da dove gli altri arrivano. E se non è un bel film, non importa: perché importa - semplicemente - che ci sia.