TRAMA
Una ricca avventuriera ed un suo amico svizzero organizzano il furto di un antico pugnale custodito nel museo Topkapi di Istanbul. Ma le cose non andranno nel migliore dei modi…
RECENSIONI
Questa deliziosa sciocchezzuola del 1964, sceneggiata da Monja Danischewsky a partire da un romanzo di Eric Ambler, è quasi un' autoparodia: nel 1955 Jules Dassin, ottimo regista di film notevoli come Forza bruta (1947) e La città nuda (1948), girò in Francia un ottimo poliziesco intitolato Rififi (Du Rififi chez les hommes) e di questo “polar” il film del 1964 è quasi un rifacimento in chiave comica. Impreziosito da un cast davvero notevole (la luminosa Melina Mercouri, moglie del regista, il fascinoso Maximilian Schell, l’esuberante e premiato con l’Oscar Peter Ustinov, il mitico Akim Tamiroff) e da dialoghi e situazioni spesso esilaranti (come tutte quelle giocate sulle differenze linguistiche, in primis il battibecco tra il poliziotto turco interpretato dallo stesso Dassin e Morley) il film punta quasi tutto sulla suspence, spesso a scapito della verosimiglianza: gli ultimi trenta minuti, quelli del colpo, sono strutturati in maniera perfetta ed il montaggio non solo alterna perfettamente le scene nei due luoghi in cui si svolge l’azione (nel museo e nel faro) ma calibra le giuste dosi di primi piani, totali e dettagli dell’ipotetica ricetta per una suspence perfetta. Un divertissement dal ritmo indiavolato, “unidimensionale” (al critico non sono concesse possibili “letture” o interpretazioni del film, a meno che non voglia cadere nelle penose letture pseudo-freudiane di Bellour e compagni), irresistibile e ricco dal punto di vista visivo.
Dopo il capolavoro Rififi, Jules Dassin riscrive le coordinate del “colpo grosso” (in Italia, però, ha precorso i tempi I Soliti Ignoti), virando in commedia degli equivoci, farsa e thriller un bel racconto di Eric Ambler ambientato ad Istanbul, città che diventa co-protagonista fra volti e folklore, con eccellente occhio documentaristico. L’aria è estremamente simpatica, i personaggi sono buffi (spicca quello, indimenticabile, di Peter Ustinov, giustamente premiato con l’Oscar) ma Dassin non manca di giocare bene anche la carta della tensione durante il colpo, pulito e “artistico”, anche se, come in Rapina a Mano Armata, beffato dal Caso. Le opere dell’autore americano (di origini ebreo-russe), comunque, non si esauriscono mai in un “bel compitino”, anche qui sono presenti elementi insoliti che denunciano la sua propensione all’eccentricità anticonformista: dall’epilogo quasi surreale fra nebbia, colori pop e visionarietà allucinata, all’audace attenzione per la figura femminile (Melina Mercouri, moglie del regista, un po’ attempata per la parte), descritta come un’allegra ninfomane (durante la lotta greco-romana, i suoi occhi golosi sugli unti torsi nudi).