TRAMA
Un padre, un figlio, il Messico, l’America.
RECENSIONI
Cosa accomuna American Pie, About a Boy - un ragazzo, La bussola d'oro e New Moon? All'apparenza nulla, in realtà sono tutti diretti, da solo o in tandem con il fratello Paul, da Chris Weitz. A ben vedere, si tratta anche di opere che pongono al centro del racconto figure di bambini o adolescenti che se la devono cavare quasi sempre da soli, in alcuni casi più maturi degli adulti con cui hanno a che fare, spesso in evoluzione, alla ricerca di un equilibrio tra razionalità e pulsioni. Il minimale A Better Life mantiene tali dinamiche contestualizzandole nel genere "immigrato in cerca di redenzione" e declinandole nella variante “coppia agli antipodi”. Protagonisti sono infatti un messicano clandestino che lavora faticosamente e con onestà per garantire a se stesso e al figlio una vita il più possibile dignitosa, e appunto il figlio, un ragazzino sfrontato che all'operosità paterna sembra preferire i guadagni facili delle tante gang malavitose con cui ha a che fare quotidianamente a scuola.
Il film imposta i conflitti in modo piuttosto tradizionale: iniziale diffidenza tra due caratteri opposti, debole punto di incontro a causa di un evento forte e traumatico, conquista di una nuova dolorosa consapevolezza all'insegna della retta via. Sulle tracce del neorealismo italiano (Ladri di biciclette aleggia su tutta la pellicola), Chris Weitz costruisce un film probabilmente molto sentito ma anche piuttosto impersonale, infarcito di stereotipi tipicamente hollywoodiani che rendono lincedere decisamente convenzionale: l'ostinata bontà del padre, che pare la figurina di un presepe tanta è la sua dedizione al lato lucente della forza, la ritmata scansione delle avversità, sempre posizionate ad hoc per suscitare la reazione voluta, il sentimentalismo travestito da rigore (tutto è trattenuto per valorizzare crescendo e scene madri). Se alcuni momenti colpiscono per intensità (il contrasto tra la bellezza del paesaggio ammirato in cima alla palma e il furto da parte del presunto amico), altri stridono (nel bel mezzo della ricerca del furgone rubato padre e figlio vanno al rodeo per ritrovare l'intesa perduta), e altri ancora sono infarciti di discutibile retorica (l'addio prima del rimpatrio con annessa canzoncina a due voci tra le lacrime, la stessa che il padre sussurrava al figlio in fasce).
Il problema è anche quello di volere spiegare tutto, in modo che nessuna ambiguità resti irrisolta. All'inizio vediamo soltanto un uomo e suo figlio, ovviamente ci chiediamo che fine abbia fatto la madre però il film glissa, la scelta si apprezza, ma la sceneggiatura non resiste e lo chiarisce nel finale. La soluzione non è tacere, piuttosto insinuare, alludere, suggerire, evitando dialoghi ad uso e consumo esclusivamente del pubblico. Detto questo il film ha comunque una sua compattezza, gode di un protagonista strepitoso che gioca di sottrazione (Demián Bichir, uno degli attori messicani più famosi in patria, inaspettatamente candidato all'Oscar proprio per questo film), centra il bersaglio di commuovere, stimola riflessioni, anche se cedendo al ricatto, sulle ombre che ridimensionano il sogno americano e mette l'industria (la troupe include professionisti più che affermati come il musicista Alexandre Desplat e il direttore della fotografia Javier Aguirresarobe) al servizio di un prodotto votato al dramma sociale e dallo scarso appeal. Resta da capire cosa abbia spinto un regista mainstream e prettamente commerciale come Chris Weitz verso un progetto così piccolo e anti-spettacolare. Chissà, forse la nonna messicana (l'attrice Lupita Lovar) e la moglie cubano-messicana Mercedes Martinez qualche influenza l'hanno avuta...