Commedia

IL DITTATORE

Titolo OriginaleThe Dictator
NazioneUsa
Anno Produzione2012
Genere
Durata83'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un sanguinario dittatore terrorizza lo Stato del Wadiya…

RECENSIONI

Prendere la realtà e provocare il suo slittamento verso il grottesco, questo il metodo di Larry Charles e Sacha Baron Cohen. Come in Borat, come in Brüno, ancora di più ne Il dittatore: qui la rappresentazione ricade subito nel contemporaneo, attraverso la maschera gheddafiana di Aladeen, a evocare i regimi mediorientali e soprattutto la loro percezione negli Stati Uniti. Introdotto dalla voce del notiziario, il terzo lungometraggio frutto della collaborazione tra attore e regista inizia come mockumentary (il riferimento a fatti reali: Obama e l'assemblea Onu) ma solo per definire la cornice, poi lo abbandona in favore della fiction pura. Il contesto è quindi più onesto e trasparente rispetto ai 'documentari' proposti nei film precedenti. Il dittatore africano va in Usa, è lo straniero che vede le cose per la prima volta, un nuovo 'studio culturale' dopo Borat. Con il suo ingresso egli provoca un vortice che travolge attualità, società e cultura americana: è l'occasione per innescare l'ironia di Baron Cohen che - caratteristica peculiare - deriva dal confronto etnico e dallo scontro tra le diversità. Il reale è inquadrato, masticato e riproposto per ottenere lo strano e il paradosso, come il videogioco terroristico sulle olimpiadi di Monaco. La parodia sembra sulla dittatura, in realtà è sull'America: si vuole rimestare nel lato oscuro del Paese 'costruito dai neri e proprietà dei cinesi'. Il teatro politico, i movimenti, le minoranze finiscono nel calderone di Baron Cohen. All'insegna della confusione e scambio di ruoli: non a caso il dittatore perde la barba, cambia abito e diventa americano, si mescola con gli attivisti, vi entra in conflitto, si riconcilia e assorbe spunti della cultura popolare ('Ho fatto un viaggio spirituale come in Mangia, prega, ama'). L'ironia del film non è solo sui contenuti, ma anche sull'immagine: nella società occidentale conta la percezione, la televisione comanda sempre la nazione, dunque il dittatore può essere un rifugiato, esiliato dalla sua stessa dittatura, a seconda della rappresentazione di sé che offre verso l'esterno.

In tutto ciò Sacha Baron Cohen gioca con la maschera come ha sempre fatto, in ogni contesto (dopotutto anche in Hugo Cabret era mascherato da capostazione): l'attore britannico continua l'opera di riesumazione della figura medievale del 'buffone', la sua deformità è l'alterazione percettiva (il look, i vestiti) e la trovata linguistica, per divertire non i potenti ma il popolo. Al solito corteggia il merchandising e tenta il feticcio, la barba di Aladeen come il costume di Borat, è un clown che in fondo ripete sempre lo stesso personaggio: l'idiota infantile e provocatorio, il freak fuori contesto che sconvolge gli equilibri. Ricorrenti sono tutti gli elementi chiave, come il presunto tocco trash, il falso lieto fine (la dittatura continua) e la consapevolezza generale della pellicola, vedi la comparsa di Megan Fox davvero autoironica. Anche qui, però, la scorrettezza coheniana ha esito alterno: da una parte c'è una serie di sequenze riuscite, come il parto nel negozio che si pone come rilettura 'anatomica' della scena sentimentale hollywoodiana; dall'altra una comicità facile e immediata (membri, prostitute, attivisti) che suona leggibile e omogeneizzata per il pubblico. In questo senso, nella volontà di farsi capire, è la motivazione più intima di regista/attore: non c'è dolore nella parodia, lo scherzo è sempre gioioso, quasi ottimista, il fine ultimo è la risata liberatoria e popolare.

Il dittatore quindi ripropone il caso Baron Cohen. Il suo merito indiscutibile è tentare un tipo diverso di comicità: una parodia culturale anche bassa e volgare (perché no), che vorrebbe dire l'indicibile, di un’oscenità essenziale e integrata nel quadro. Piaccia o meno impossibile è negare il risultato personale, risultato che va goduto in originale e non si presta a nessun tipo di doppiaggio. Allo stesso modo innegabile è la profonda discontinuità di pellicole che vivono di scarti improvvisi, guizzi del buffone, trovate risolte e tanti momenti morti. Dietro il velo del grottesco si ha sempre la stessa sensazione: che non sia coraggio vero, oppure solo a tratti, che sia una sacrosanta operazione, ma non supportata da una costruzione compiuta. Un film che conferma le qualità di Baron Cohen e il fallimento nei fatti: tutto si ferma un attimo prima del trash, molto è allungato e diluito, probabilmente più adatto agli show televisivi dell'attore che alla forma del lungometraggio.