TRAMA
Orfana di madre, Biancaneve viene cresciuta dal padre, il Re, in un regno felice e prospero. Ma quando il Re decide di risposarsi con una donna bellissima ma perfida, il Regno cade in disgrazia: alla scomparsa del Re, la Regina assume il comando e impone tasse pesantissime alla popolazione, riducendola così in povertà. Quando la diciottenne Biancaneve, vissuta fino ad allora rinchiusa nel palazzo, scopre le reali condizioni del popolo, decide di ribellarsi alla Regina e chiede aiuto al giovane Principe che ha appena incontrato. Anche la Regina, però, ha mire sul Principe, progettando di sposarlo per risollevare le sue finanze in crisi. Quando si accorge che il Principe è interessato a Biancaneve, la Regina ordina al suo fidato aiutante di uccidere Biancaneve nella Foresta Nera…
RECENSIONI
Hollywood parla chiaro: è ora di cambiare le favole, dice la Regina/Roberts in apertura di commedia. Così, mentre la mini-serie Once Upon a Time diffonde il verbo anche in tv, sull'onda lunga delle riscritture demistificanti à la Shrek, anche Tarsem s'accoda al nuovo trend, e, dopo aver remixato il mito della titanomachia con Immortals (un peplum digital-kitsch a suo modo audace), passa a ristrutturare con spocchia pop(ulista) una delle favole più celebri dei Grimm. Se chiaroscuri e implicazioni morali vengono meno, eclissate dalla scintillante cosmesi romcom e dall'ingordigia (sceno)grafica di Tarsem, il mélo zuccherino si accontenta di svuotare di mistero la fiaba (riportata al senno del verosimile) per ostentare sgargianti tinte da caleidoscopio bollywoodiano (il finale originale della favola, con la Strega costretta a ballare a morte, coincide, del resto, con uno dei leitmotiv più ricorrenti a Bombay). Che altro aspettarsi da un regista, autore di video musicali e commercial, che definisce il suo lavoro come quello di «una puttana innamoratasi del suo mestiere»? Anziché badare alla fabula, espansa e lacunosa, Tarsem preferisce imbalsamare il mondo di Biancaneve in tableaux opulenti e laccati, dove l'esubero di costumi e architetture satura ogni inquadratura, tra scene lussureggianti e iper-iconiche, décor sontuosi e antirealistici, paesaggi veri e ricostruiti in digitale.
Contaminato dalle più eclettiche suggestioni filmiche (Il Mago di Oz, Alice nel paese delle meraviglie, ma anche, a dire di Tarsem, L'infanzia di Ivan di Tarkovskij, preso a modello per la scena del bosco di betulle) e artistiche (se il castello ricalca la Sagrada Familia di Gaudì, l'iniziale battaglia navale, il ballo carnevalesco e le nozze della Regina si fregiano di figurazioni barocche e boschiane), l'esasperato ibridismo del suo cinema accented trova in Biancaneve, svaporata opera d'evasione, il perfetto cortocircuito tra Hollywood e Bollywood, in bilico com'è tra spettacolo pacchiano e esotismo camp (ribadito dal balletto finale). Lo stilismo fusion di Tarsem può così accordarsi alle (basse) pretese dell'opera e deformare un ordinario film per bambini in un tripudio di kitsch a buon mercato, complici i costumi sfarzosi e immaginifici della compianta Eiko Ishioka (storica collaboratrice di Tarsem e premio Oscar per il Dracula di Coppola: a lei è dedicato il film). E la fiaba, virata a farsa picaresca e pseudo-femminista, non è più la stessa: la fanciulla dall'incarnato niveo non è più svenevole vittima, ma spadaccina riottosa; il principe azzurro, declassato a Maschio Alfa stolido e inetto, viene a più riprese rapinato e lasciato in mutande, come il reduce di un'eroicomica trash; e i nani, debitamente ribattezzati e ritornati briganti (come nella fiaba originaria), non sono che un gruppo di ribelli, ostili alla società (che li escluse) e al lavoro (rubare, sì, meglio che andare in miniera). Discendenti anarchici dei bonari nani disneyani (al voto di maggioranza preferiscono l'unanimità), sono i soli personaggi maschili del film a non risultare devirilizzati, bugiardi o vigliacchi, specie al confronto del Principe stesso o del lacchè dell'avida Regina, una Roberts finalmente espropriata del suo proverbiale sorriso e infettata di sana cattiveria; proprio la reginetta di Pretty Woman, insieme allo stardom di (veri) nani (eletti a soli eroi positivi della vicenda, insieme a Neve), è da subito padrona della scena, sin da quando dirotta l'incipit in voce off, con un imperioso Questa è la mia storia.
La stessa mattatrice, che della commedia romantica è emblema sfiorito, esorcizza qui le stimmate dell'attrice in declino: sadica e squilibrata Baby Jane, si riscopre decrepita, cinica, schizofrenica e (sado)masochista, flagellandosi nel suo personale salone estetico a base di maschere di guano, corpetti da tortura, vermi, serpi e sanguisughe. Ed è un altro sensibile ribaltamento, da burtoniano elogio della diversità: se la Roberts diventa Strega, l'audreyhepburniana Collins, bellezza meno aderente ai canoni, può assurgere a eroina (così come i nani, cacciati dalla società come elementi sacrificabili e indesiderati, si riscattano a discapito di un Principe belloccio e vile, umiliato anche dal punto di vista iconico - coniglio prima e cane poi). E se cadono altre convenzioni chiave (il bacio, la mela), il (pre)testo s'affolla di spunti inattesi - le disuguaglianze sociali, il malgoverno a panem et circenses, la conseguente recessione -, trovando il suo zenith riflessivo nel fantomatico mostro che terrorizza il villaggio, comandato e strumentalizzato dalla Regina come spauracchio per riscuotere tasse, paura e pubblica obbedienza (alla maniera di The Village, più o meno). Ovvio che a fine rivisitazione (com'è d'obbligo in questi sardonici pastiche post-tutto), il supposto femminismo fin là preponderante vada sconfessato insieme al ritrovato ordine patriarcale (detronizzato il Principe, ci s'inchina al Re), lasciando che l'happy ending, appena più (auto)ironico e consapevole del dovuto, vaporizzi ogni residua problematicità (di gender e non) senza più approfondirla. Pur sapendo rivitalizzare e mascolinizzare una fiaba tutta al femminile (similmente al sopravvalutato Rapunzel), Biancaneve, confutando le sue stesse promesse (Questa è la storia di Biancaneve, dopotutto), s'arrende infine a funzionare unicamente come prodotto per famiglie: non proprio un blockbuster da happy meal, ma nemmeno operazione innovativa e coerente, forte di più registri da ricetta masala (romantico, avventuroso, commedia brillante, grottesco-satirico) ma piatto, greve e incompiuto nella scrittura come nella forma, indeciso tra vezzi infantili da cartoon in carne e ossa e stonate licenziosità adulte.
Anche in questo caso, fra scenografie indianistiche con oro e colori accesi del Rajasthan, stimoli dalla pittura di James Abbott McNeill Whistler e dalle creazioni di René Lalique, il castello in CGI alla Gaudi e costumi kitsch/mirabolanti della fida Eiko Ishioka (cui il film è dedicato, essendo scomparsa), il Tarsem’s touch è all’opera, per quanto più contenuto di quel che ci si aspetterebbe in un film fantasy, forse a causa di una produzione che tende al risparmio chiudendosi in due soli set (il castello e l’esterno innevato). Un talento al servizio di un progetto mentalmente povero: la sceneggiatura è imbarazzante, fra vuoti di senso (Biancaneve e la lettera d’addio ai nani che la rincorrono e la trovano ad aspettarli; Biancaneve che decide di andare incontro alla bestia che la cerca), mancanza di inventiva indifendibile in una fiaba rivisitata e qualche buona intuizione non sfruttata a dovere (la regina e il suo doppio schizofrenico). In confronto, il serial C’era una Volta è un capolavoro. Il registro della commedia, con poche carte da giocare in battute e gag, è in pericoloso equilibrio sulla carineria disneyana più puerile (Alan Menken alle musiche), mentre l’aria spensierata rincorre la Hollywood che fu dei musical e delle commedie sentimentali sbarazzine, girate in studio per accompagnare finto e fiabesco: per povertà di trama ed intenti, allora, era meglio rifarsi completamente a Brigadoon. Quando nel finale, infatti, Tarsem contamina la produzione con un balletto da Bollywood e la canzone “Love” di Nina Hart ripresa da Lily Collins (figlia di Phil), ci si rammarica non abbia ammorbato tutto il film, magari seguendo gli umori del prologo animato con burattini di ceramica, opera dello svizzero Ben Hibon (Harry Potter e i Doni della Morte). Altra mancanza: una regina cattiva davvero temibile perché, forse per ragioni divistiche, Julia Roberts è troppo presente e troppo indulgente verso il proprio personaggio.